20 Luglio 2015
Don Piumatti scrive dalla missione di Muhanga

20 luglio 2015
Siamo partiti dall’ areoporto di Malpensa. Trovarci in mezzo a quella marea di gente era già un messaggio e tanti, tantissimi pensieri. Nini di Luserna, Umberto e Patrizia di Nichelino, Flavio, Greta, Rosa e Franco da Pinerolo: una diciottenne e due ottantenni. Un pugno di gente come tanti altri in partenza per tutte le parti del mondo; e già questo faceva di noi una cosa bella e viva: gente che si muove, gente che esce.
Eravamo un po’ tesi ed attenti per restare insieme, ma ci si sentiva bene. Avere per méta Muhanga, un villaggio della foresta del Congo, dove ci aspettano Prosperina, Katembo, Nzoli… gente semplice che vive di scarsi raccolti dei campi, faceva di noi già qualcosa di diverso. È bello sentirsi parte di una marea grande, ma è bello pure sentire che non sei solamente trasportato dalla corrente, tanto più se è una corrente costruita-imposta da altri.
Coscienti che stiamo facendo qualcosa di diverso, di veramente nostro, veramente scelto e voluto. Soprattutto ci sentivamo, e ci sentiamo ambasciatori! Partiamo come inviati, portiamo noi e portiamo molti altri che ci hanno detto: «Andate a nome nostro, ditegli che ci siamo anche noi…» Portare cose nostre e portare cose di altri e per gli altri. Non è poco. Ed abbiam portato anche 7.235 euro. Non sono un numero, tanto meno un conto in banca. Frutti della quaresima di fraternità in diocesi.
Che cosa nascondono quei quattro numeri lì sopra? Mostrano che avete due mani, proprio come Dio ci ha fatti: una mano tesa verso chi, a Pinerolo, non riesce a mangiare un pasto dignitoso fino alla fine del mese, e non trova lavoro; l’altra mano tesa verso Oliva, Bayoli, Cesarina… che si trovano qua nella foresta del Congo e che da anni mangiano uno scarso pasto alla sera, perché sotto le zolle fertili gli altri grattano oro e coltan e se lo portano in Europa, ed allora nei campi da vent’anni scorrazzano i fucili.
Due mani che, orientate in una sola direzione rischiano di chiudersi, ma che allargandosi diventano abbraccio. Numeri che mostrano tanta voglia di fare qualcosa, voglia di condividere, voglia di riaggiustare questo nostro povero mondo. Mentre ero lì, in Italia, una sera stavo in chiesa pregando, mi è passata accanto una mamma, discreta e pensierosa, si vedeva che aveva problemi suoi, mi fece un sorriso e mi pose in mano una busta piccolina con dentro un bigliettone, senza dire una parola.
Ci sono questi gesti! Anche molti. Quei quattro numeri mostrano che c’è chi al mattino sente la radio o apre il giornale, ma non si ferma né si accontenta del gazzettino del Piemonte. Sa che esiste un mondo più grande, e vuole viverci dentro. Ho già avuto modo di dirlo, una confidenza tra amici: in Italia ho sentito forte come due forze: da una parte aumenta, ed è visibile, il disinteresse generale per le realtà di fuori, il cosiddetto terzo mondo (papa Francesco lo definisce “globalizzazione dell’indifferenza”); e dall’altra ho visto che le persone che già vi si son legate, approfondiscono sempre più tale coinvolgimento, il mondo intero ormai è diventato la loro vita.
Indifferenza ben alimentata da chi diabolicamente approfitta di tutto, anche dei barconi, per creare chiusura ed egoismo, e fa proseliti. E gente che invece respira ossigeno, vive il mondo. Noi avevamo detto che a Muhanga stiamo costruendo una piccola sala operatoria, in aggiunta alle due strutture ospedaliere già in funzione, e dobbiamo attrezzarla. Francesco e Lucy (i responsabili dell’Ufficio Missionario Diocesano) lanciarono l’idea per la quaresima, e siete partiti.
Quando c’è chi fa da ponte possono nascere molte cose belle. Ponti e acquedotti. I nostri progenitori, i famosi romani, ne erano gli esperti e noi oggi li mostriamo ancora con giusta fierezza. Sono dei fari importanti in questo mondo che diventa invece esperto nella costruzione di muri, kilometri e kilometri di cementi assurdi, pazzeschi, mentre si blatera una parola che resta senza senso: mondialità. Tra poco la gente di Muhanga non avrà più bisogno di fare 150 km per un intervento chirurgico che non richieda troppa specializzazione come un cesareo o un’appendicite.
Un piccolo “centre hospitalier” completo; non caduto dal cielo, né costruito con l’orgoglio delle ultime tecnologie che non rispettano i tempi, né i ritmi della vita, né il riposo, né l’uomo. Un piccolo centre fatto da mani fraterne, con sudore e gioia, senza fretta. Ed abbiamo già anche potuto acquistare un letto operatorio, autoclave, aspiratore, elettrobisturi… Numeri che hanno un significato. Come vedete, ci sono tante luci dietro pochi numeri. Quattro cifre vostre e sei lettere nostre: Grazie!
Padiri G.
LASCIA UN COMMENTO
Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. Visualizza l'informativa privacy. I campi obbligatori sono contrassegnati *