8 settembre 2014
Dal 4 al 7 settembre è stato ospite a Pinerolo monsignor Laurent Dabirè, vescovo della diocesi di Dorì, in Burkina Faso.
Perché si trova in Italia?
Son venuto per seguire un corso di aggiornamento per i vescovi novelli a Roma. Ho colto l’occasione per accettare l’invito che avevo ricevuto a gennaio, in Burkina, da parte di Monsignor Debernardi. In questi giorni c’è la festa del santuario della Madonna delle Grazie, inoltre ho potuto incontrare il gruppo che si impegna nella collaborazione con il Sahel.
Com’è l’esperienza di vescovo a Dorì?
Per me è un’esperienza nuovissima. Si tratta di avere la responsabilità di una comunità diocesana, di imparare ad essere un punto di riferimento, di unità, di testimonianza della fede cattolica in un ambiente a maggioranza musulmana.
Quello di Dorì non è un contesto di chiesa trionfante, ma mi aiuta a capire che la Chiesa è esclusivamente opera di Dio, non degli uomini e della loro forza.
Quest’esperienza mi sta aiutando ad aprire gli orizzonti, la parola umiltà è quella ce mi guida fin dall’inizio del mio mandato. Nel mio paese, al sud, sapevo dei musulmani, ma non avevo mai avuto a che fare direttamente con loro, lì il 98% della popolazione è cattolico. A Dorì la situazione è completamente ribaltata, i cristiani sono il 2% ed è essenziale entrare in dialogo vero e concreto con i fratelli musulmani.
E questo dialogo è reale?
Quella di Dorì è una bella eccezione per quanto riguarda il dialogo interreligioso, un’eccezione promettente. Prima di tutto per la predisposizione di entrambe le comunità. E in secondo luogo grazie alla formazione di un’associazione interreligiosa, l’Union fraternelle des croyants, dove musulmani e cristiani collaborano insieme circa i problemi di sviluppo e di interesse comune. In un dialogo ci sono sempre dei progressi da realizzare, e anche i fedeli devono crescere in questa dinamica.
Tutto questo crea le condizioni per una convivenza pacifica e di un dialogo profondo nel tempo. Diversamente sarebbe impossibile convivere.
Dorì è un caso “che fa scuola” sia a livello nazionale che di tutta l’Africa dell’Ovest.
In tutto questo ci si potrebbe chiedere quanto è importante la questione della conversione…
È una cosa che deve essere lasciata alla libertà individuale. Per il momento non succede niente di rilevante, contando inoltre che c’è il peso della tradizione e della famiglia. La faccenda della conversione appartiene a Dio e alla libertà individuale.
Bisogna dire che attraverso le scuole cattoliche, frequentate anche da molti musulmani, è concretamente visibile una mentalità cristiana. A scuola i ragazzi imparano a conoscersi e a vivere la tolleranza e la comprensione, si ha una “cristianizzazione” del modo di vivere. Sono molti coloro che preferiscono la scuola cattolica perché lì si riceve anche un’educazione “umana”.
E come sono strutturate queste scuole?
Le scuole fanno riferimento alla diocesi.
La scuola cattolica, nel contesto nel quale ci troviamo, è lo strumento principale per riuscire a parlare e a interagire con la popolazione del Sahel. Attraverso la scuola si può impostare un discorso umanistico e di educazione cristiana.
C’è una convenzione con lo Stato per lo stipendio dei docenti, anche se alcune volte ci sono stati dei problemi, come in tutte le convenzioni. C’è comunque un forte dialogo tra la Conferenza Episcopale e il Ministero dell’Istruzione.
La volontà sarebbe quella di avere un sistema cattolico di educazione dalle elementari all’università.
Per combattere l’ignoranza è essenziale far studiare i giovani. Un ragazzo istruito può inserirsi nella società, avere un lavoro, riuscire ad esprimersi in modo adeguato.
Per frequentare la scuola c’è una retta minima, per evitare di avere un sistema che fa “cadere tutto dall’alto”, facendo credere alla gente di non dover partecipare all’educazione dei figli. Questa è anche un’educazione della società: se compi uno sforzo, anche piccolo, sei immediatamente più partecipe di ciò che avviene attorno a te.
E questa è anche la logica dei progetti finanziati dalla CEI: i locali devono dare un piccolo contributo per poter avviare il progetto, in una logica di solidarietà e non di assistenza.
Silvia Aimar
(l’intervista integrale sul prossimo numero di Vita Diocesana in uscita il 20 settembre 2014)