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Chiesa  

Dio da che parte sta?

Dio da che parte sta?

Il 14 marzo si sono confrontati Ermis Segatti, Gabriella Caramore e Sergio Rostagno, sul tema del terzo comandamento Per la tradizione ebraica non è il secondo comandamento, ma il terzo. Secondo il racconto di Esodo 20, 1-21, prima Israele viene invitato a riconoscere la signoria di Dio (“Io sono il Signore tuo Dio…non avrai altri dei di fronte a me”) e a non costruirsi idoli né immagini (“Non ti farai idolo né immagine alcuna…non ti prostrerai davanti a loro e non li servirai”). Dio è l’assolutamente altro, non sta dentro un orizzonte mondano, deve avere il primo posto nella vita dell’uomo. Chiara quindi risuona la terza parola, “Non pronuncerai invano il nome del Signore tuo Dio”.
Su questo tema si sono confrontati il 14 marzo, su invito delle ACLI con la collaborazione di diocesi e chiesa valdese di Pinerolo, tre relatori molto qualificati: Gabriella Caramore, conduttrice su RadioTre di “Uomini e profeti”, Sergio Rostagno, docente emerito di Teologia sistematica alla Facoltà valdese di Roma, e don Ermis Segatti, referente alla cultura della diocesi di Torino.
Nell’introduzione Raffaella Dispenza, vicepresidente provinciale ACLI di Torino, ha spiegato come la serata sia nata dal desiderio di leggere la Bibbia in un’ottica multiculturale, e come ci si sia soffermati su questo versetto dell’Esodo perché oggi Dio viene strattonato da più parti per giustificare, spesso in modo semplicistico, scelte che con Dio non hanno niente a che fare.
Caramore ha aperto il suo intervento sottolineando il carattere di narrazione del testo biblico, che non è un codice fisso ma una “parola viva che ci deve parlare oggi come ha parlato allora”. Se perciò ci chiediamo cosa significa oggi questo testo, possiamo rispondere che “oggi si parla invano di Dio quando si pretende di dire ciò che Lui ha detto”. Le prime a correre questo rischio sono le chiese: quelle evangeliche, per un eccesso di fiducia nella Parola; la chiesa cattolica, quando ritiene di essere l’unico depositario infallibile della parola di Dio. “Tutti i fondamentalismi, di tutte le correnti e di tutte le culture, parlano invano di Dio, dandogli un nome che non è il suo ma il loro”.
Come parlare di Dio non vanamente? Per prima cosa “fare esercizio di pulizia nei linguaggi e nei pensieri…se parliamo con parole di verità, con sincerità e giustizia, è già sufficiente”. È importante andare alla ricerca di un linguaggio nuovo, che superi gli stereotipi e i luoghi comuni con cui si parla di Dio, riscrivendo “le storie di Dio intrecciate con quelle delle creature che hanno vissuto per il bene”.
“Guardarci intorno nel mondo dicendo Dio senza farci del male”: questo l’obiettivo che si è posto don Segatti, scegliendo un punto di vista particolare, quello della cultura cinese. Qui mancava un concetto che potesse corrispondere a quello del Dio biblico. La scommessa del gesuita Matteo Ricci, nel ‘500, è stata quella di “trovare all’interno della cultura cinese qualche elemento che permettesse di gettare un ponte… interpretando il confucianesimo come base naturale per recepire la Rivelazione, come una sorta di teologia naturale”. È il modello da seguire oggi nel dialogo interreligioso, dove spesso non si osa parlare di Dio, ma ci si limita al confronto nell’ambito pratico. “Se si vuole fare un confronto onesto su Dio, ogni cultura deve fare i conti con se stessa. Bisogna avere il coraggio di parlarne guardandosi in faccia”. All’obiezione che il monoteismo in se stesso incita alla violenza perché esclude tutti gli altri, Segatti ha risposto che “monoteismo è far sparire ciò che Dio non è. Se è l’unico Dio, è lo stesso per tutti”, però non nella logica della sopraffazione delle crociate o delle guerre di religione, ma nella logica di servizio del Vangelo, per cui “quanto più uno ritiene di avere la verità da annunciare, tanto meno potere deve avere”.
Il reale significato del terzo comandamento, ha sottolineato Rostagno, è “non usare il mio nome per scopi magici”. Dire Dio, nominare Dio è necessario per mantenere la propria identità di credenti, ma non bisogna farsene un idolo. Come? “La chiesa può e deve dire: Questo è il Dio in cui credo, ma nello stesso tempo deve ribadire che il nome di Dio è ineffabile, non circoscrivibile dall’uomo”. L’identità ha funzione di stimolo e non di chiusura, perché “la parola di Dio non è data a una religione né a una chiesa, ma all’umanità; la promessa di Dio è universale, quindi la chiesa non se ne può appropriare”.

Livia Gavarini Un momento del confronto.

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