11 Ottobre 2012
Cinquant’anni fa si apriva il Concilio che ha cambiato il volto della Chiesa
L’11 ottobre 1962 nella Basilica di San Pietro la cerimonia di apertura del Vaticano II L’11 ottobre 1962 un corteo di 2540 vescovi raggiungeva in processione la basilica di San Pietro. Si apriva solennemente, presieduto da Giovanni XXIII, il Concilio, ossia l’assemblea di tutti i vescovi della Chiesa Cattolica, annunciata dal Papa il 25 gennaio 1959. A differenza di quanto avvenuto in passato l’assemblea dei vescovi si riuniva non per contrastare una qualche eresia, non per pronunciare condanne, ma, come si legge nel proemio al primo documento conciliare (la costituzione sulla liturgia firmata il 4 dicembre 1963), per «far crescere ogni giorno di più la vita cristiana tra i fedeli; meglio adattare alle esigenze del tempo le istituzioni soggette a mutamenti; favorire tutto ciò che contribuisce all’unione di tutti i credenti; rinvigorire ciò che giova a chiamare tutti nel seno della Chiesa». Si era aperta la via a un ripensamento del concetto di Chiesa, a nuove estrinsecazioni della Chiesa stessa. La teologia si era aperta a una visione misterica della Chiesa superando la visione della “società dei perfetti cristiani”. Si era andata imponendo la visione della Chiesa come “Corpo di Cristo”, un corpo composto di membra diverse, tutte necessarie, riconoscendo pian piano il laicato corresponsabile della stessa missione della Chiesa. Questa aveva subito un processo di de-europeizzazione; nel Collegio cardinalizio si andava abbandonando l’idea, pur dominante, di fatto, che la maggioranza dei membri dovesse essere italiana. La Chiesa doveva dimostrare di non essere legata a una sola cultura, quella occidentale, e di non avere l’intenzione di imporla, insieme al messaggio di salvezza di cui è portatrice, alle altre culture. Si trattava poi, come ha osservato Hubert Jedin, uno dei massimi studiosi di storia della Chiesa, di rinunciare all’europeismo «che ha dominato a lungo nella liturgia e nell’arte, nella teologia e nella formazione sacerdotale» e di staccarsi definitivamente dal colonialismo. Giovanni XXIII, condotto dagli eventi della sua vita in Bulgaria, Turchia e Grecia, percepiva con dolore la divisione della cristianità e avvertiva come una necessità inderogabile la ricomposizione dell’unità dei cristiani. Occorreva assumere un nuovo orientamento verso il mondo che viveva allora, a livello europeo e occidentale, la tensione dell’epoca detta della guerra fredda, non senza minacce per l’attrito tra le due grandi superpotenze di allora: Unione Sovietica e Stati Uniti d’America. Erano tramontati i tempi della teocrazia, di una Chiesa che benediceva o scomunicava re e imperatori; erano altresì passati i periodi che avevano visto la Chiesa porsi contro un mondo in cui tutto ciò che cattolico non era o non dipendeva dalla Chiesa aveva il sapore di demoniaco o di avversario. Occorreva riprendere coscienza che la Chiesa è nel mondo (non sopra o contro di esso pur non appartenendovi) e che non si poteva liquidare come prodotto del male tutto ciò che non ricadeva sotto la direzione dei vescovi. Il movimento ecumenico aveva aperto gli occhi per vedere gli altri cristiani non come nemici, ma come fratelli con i quali dialogare per “servire” gli uomini. Giovanni XXIII avrebbe scritto l’enciclica “Mater et Magistra” sognando una Chiesa certamente “maestra” (nelle verità di fede) e al contempo “madre”. L’allocuzione pontificia di quell’11 ottobre si apriva con un invito alla gioia contro i profeti di sventura che non vedevano altro che il male e sognavano una Chiesa arroccata in una fortezza per dominare il mondo e alla ricerca di privilegi.
LASCIA UN COMMENTO
Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. Visualizza l'informativa privacy. I campi obbligatori sono contrassegnati *