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Attualità  

Violenza sulle donne. Fino a quando?

Violenza sulle donne. Fino a quando?
La festa dell’8 marzo richiama l’attenzione su una piaga sociale ancora irrisolta

Suor Gemma Valero, nelle foto che pubblica sul suo profilo facebook, sorride e in braccio tiene quasi sempre un bambino. Spesso più di uno. Dal novembre 2009 opera come missionaria nella comunità delle suore giuseppine di Joaquim Gomes, in Brasile. In occasione dell’8 marzo le ho chiesto di mandarmi via mail una riflessione sulla donna. Ho interpellato lei per avere un contributo diverso, globale, non scontato né retorico. Suor Gemma ha risposto alla mia mail dopo poche ore. «So che avresti voluto una riflessione – ha scritto – e non una “storia”, ma non ce l’ho fatta…». Meglio così. La storia che suor Gemma ha inviato parla da sola. Anzi grida. E, senza sconti, ci interpella tutti.

P.R.

La storia di Celma

Celma ha 40 anni. La conosco ormai da più di un anno. Un pomeriggio suona alla nostra porta: stranamente non mi guarda in faccia; percepisco una profonda tristezza e stanchezza nel suo “corpo”; l’ascolto con attenzione ma fatico a cogliere alcune sue espressioni perché parla sottovoce. Lente lacrime cominciano a scorrerle sul volto abbattuto. Con una intuizione interiore la prevengo: «Aspetti un altro bambino?». Annuisce e abbassa ancor più la testa. Le faccio una carezza e le dico: «Non ti preoccupare, ti aiutiamo». Celma è ricca solo di figli. Già ha sofferto molto, soprattutto a causa del primo uomo che la picchiava e che, dopo un tempo in carcere, si è allontanato senza mai più contribuire economicamente alla crescita dei figli. La situazione di questa donna non è solo di povertà economica, ma di miseria in generale. Anche se da tempo si tenta di accompagnarla amichevolmente e di migliorare le sue condizioni, non riusciamo a mutare granché la sua vita. Quante volte si sperimenta il problema, non solo di «insegnar a pescare» per evitare l’assistenzialismo senza cambiamento e senza futuro, ma la difficoltà di suscitare il «desiderio di pescare», la voglia di reagire per uscire da un tunnel in cui la visuale è solo sopravvivere oggi. Continua a piangere in silenzio, ma non voglio “pesare” con altre domande e aspetto che sia lei a confidarsi. Il padre del bimbo che attende è un giovane (circa 12-14 anni meno di lei) che vive con un’altra donna, ma che ogni tanto va nella sua casa e vi rimane alcuni giorni: spesso la minaccia, finora per fortuna solo verbalmente; le ultime sue parole sono state: «Se non abortisci, sai già cosa ti accade!». Celma ha paura: già lo ha visto con un coltello in mano, già ha subito troppe volte le sue violenze psicologiche, già ha difeso i suoi bambini dalle sue frasi cattive che fanno sgranare gli occhi ai più piccolini obbligandoli a rifugiarsi nella stanza zitti e fermi. Ma lei non vuole assolutamente abortire: lei ama i suoi figli e già nel suo cuore ha accolto questo indesiderato. Scelta coraggiosa. Decidiamo di rivolgersi ai servizi sociali. Portandosi dietro i tre o quattro figli più piccoli perché nessuno può badare a loro, in pullman ma anche camminando molto, sotto il sole cocente, andiamo più volte a parlare con le assistenti sociali di centri diversi: seguono parole, promesse, piccole speranze… ma non fatti. E così, a malincuore, dopo alcuni giorni decidiamo di recarci alla “delegacia da policia” per le donne dove, tempo addietro, già Celma fu mal accolta e umiliata: per questo accetta questa ultima opportunità solo se l’accompagno. A volte la presenza di una suora può ottenere un pochino più di rispetto e di attenzione… anche se sarebbe solo un diritto di questa donna sola e sofferente! Ma, dopo circa due ore di attesa, la “chefe” si rivela così insensata e ironica che usciamo senza denunciare il giovane. Riprendiamo il pullman: la piccolina dorme appoggiata al suo petto, il maschietto è in braccio a me e la sorellina di 8 anni pare assorbire il silenzio e la tristezza dei nostri cuori delusi. Compro un dolcino per ciascuno da un ragazzo che passa da un pullman all’altro cercando di guadagnarsi qualcosa. Pochi giorni dopo vengo a sapere che tutta la famiglia, senza bagagli, si è trasferita da una parente che ha anche lei nove figli. Cucinano un unico pasto al giorno e poi mangiucchiano qualcosa quando c´è.
Perché queste ingiustizie? Fino a quando?

Suor Gemma Valero

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