28 Aprile 2011
Un pontificato che ha cambiato la chiesa e il mondo
Intervista a monsignor Renato Boccardo, arcivescovo di Spoleto Valsusino doc (è nato a Sant’Ambrogio il 21 dicembre 1952) monsignor Renato Boccardo è oggi arcivescovo di Spoleto. Nel 1992 viene nominato responsabile della Sezione Giovani del Pontificio Consiglio per i Laici. In questa veste coordina l’organizzazione e la celebrazione delle Giornate Mondiali della Gioventù di Denver (1993), Manila (1995), Parigi (1997) e Roma (2000), nonché il Pellegrinaggio dei Giovani d’Europa a Loreto (1995). Questo incarico gli ha permesso di conoscere da vicino Giovanni Paolo II.
Qual è il suo primo ricordo del Papa polacco?
Se la sottana, la fascia e lo zucchetto bianchi non potevano sorprendere, la sorpresa fu innanzitutto il nome. Ero in piazza san Pietro quella sera, in mezzo a migliaia di persone. Quando il Cardinale Protodiacono Pericle Felici annunciò dalla Loggia della Basilica Vaticana il nome dell’eletto, Karol Wojtyla, una signora romana vicino a me esclamò: «O Dio, un negro! E mo’ come famo?». Vedemmo poi un atleta di 58 anni, dal volto squadrato, nel quale si leggeva tanta forza quanta certezza. Un polacco. Quello era l’evento. La lunga lista di papi italiani – dal 1522 – veniva improvvisamente interrotta. Più straordinario ancora: i Cardinali riuniti in Conclave non avevano esitato a designare un uomo il cui ministero si esercitava al di là della cortina di ferro, in un Paese il cui regime si proclamava orgogliosamente materialista ed ateo. Scrisse in quei giorni il quotidiano francese Le monde: «Prima papa Giovanni, il Concilio, poi Paolo VI. Adesso un Papa che viene dalla Polonia cattolica. Sono dieci anni che parliamo di fantasia al potere (si riferiva agli slogans del ‘68). Per ora dobbiamo concludere che, almeno nella scelta dei Papi, la sola fantasia al potere la si è vista al di là del portone di bronzo vaticano».
Davvero nessuno “sospettava” Wojtyla?
Quando, poco prima di entrare in Conclave, il card. Franz Koenig, Arcivescovo di Vienna, chiede al vecchio amico di Varsavia, card. Stefan Wyszynski, quale fosse il suo candidato, si sente rispondere: «Nessuno». Koenig lo incalza: «Credo che la Polonia potrebbe averne uno». Wyszynski ribatte: «Intendi dire che dovrei andare a Roma? Se lasciassi il mio Paese sarebbe una vittoria per i comunisti». Dopo un attimo di imbarazzato silenzio, Koenig riprende: «Ci sarebbe un altro…». Ma il Primate polacco lo interrompe ancor prima che pronunci il nome di Wojtyla: «È giovane, non è abbastanza conosciuto». Solo la prima metà della frase era vera. Il giovane cardinale di Cracovia era tutt’altro che sconosciuto. Si era messo in luce al Concilio Vaticano II e si era fatto stimare nei contatti allacciati in occasione dei suoi viaggi per il mondo. I Cardinali avevano gradualmente scoperto questo confratello che “veniva dal freddo” e portava il messaggio di una Chiesa in cattività ma sempre libera. Hanno apprezzato il suo rigore dottrinale, la sua scienza teologica, talvolta la sua rudezza, ma anche la sua semplicità e il suo senso dello humor. Ci si meravigliava davanti a lui: «È vero che va a sciare?». « Proprio vero». «Raro nel Sacro Collegio!». «Non in Polonia. Da noi, la metà dei Cardinali scia». In quel tempo, in Polonia c’erano solo due Cardina¬li…
E il ricordo numero due?
La seconda immagine che ricordo risale al 22 ottobre 1978. Sul sagrato della Basilica Vaticana il nuovo Papa inizia solennemente il ministero di Pastore della Chiesa Universale e, all’omelia, grida al mondo, alle nazioni, ai popoli: «Non abbiate paura! Aprite, spalancate le porte a Cristo! Non abbiate paura! Cristo sa che cosa c’è dentro l’uomo. Solo lui lo sa!». Ma il grido non gli basta. L’istinto a camminare, ad andare verso la gente, lo spinge giù sulla stessa piazza san Pietro. Improvvisamente, rompendo la rigidità del cerimoniale, comincia a scendere i gradoni della basilica, stringendo come un bastone la lunga asta con il Crocifisso che gli aveva lasciato Paolo VI. Nessuno capiva dove intendesse andare. Arrivò in piano e andò ad abbracciare un gruppo di spastici in carrozzella. Il pontificato di Giovanni Paolo II nasceva così, sotto il segno di quell’abbraccio all’umanità rappresentata a San Pietro da una schiera di corpi martoriati da fragilità fisica, da handicap, da debolezza mentale.
A Roma però – dicono i maliziosi – ci stava ben poco…
La storia e la geografia sono state le passioni dominanti di Giovanni Paolo II: la geografia l’ha indotto a viaggiare, la storia l’ha provocato ad un continuo ripensamento delle vicende della Chiesa e nei secoli. Mai nessun Papa ha viaggiato tanto e mai nessuno ha fatto i conti con la storia della Chiesa quanto lui. Sono state un centinaio le occasioni in cui papa Wojtyla ha riconosciuto responsabilità storiche dei “figli della Chiesa” e più di venti quelle in cui ha chiesto perdono. A puro livello di cronaca, ricordiamo che in 104 viaggi internazionali il Papa ha visitato 129 Nazioni, ha percorso 1.162.615 chilometri ed ha pronunciato 2.382 discorsi. In Italia, ha compiuto 146 viaggi fuori Roma percorrendo 84.998 kilometri, ha visitato 303 parrocchie romane su 335, ed ha pronunciato oltre 900 discorsi.
Si può dare, oggi, un giudizio su questo pontificato itinerante?
Se si rileggono oggi le valutazioni e i commenti sui suoi primi pellegrinaggi apostolici, ci si accorge che essi, entusiastici o critici che fossero, partivano tutti dal presupposto che un viaggio del Papa fosse qualcosa di eccezionale e che richiedesse quindi una qualche giustificazione. Sfuggiva la valenza essenzialmente pastorale del viaggio, non se ne intravvedeva l’inserimento in un disegno di ampio respiro, si continuava a rigirare tra le mani un tassello di un mosaico sconosciuto come se quello, da solo, potesse dare una visione d’insieme. Il Papa stesso, allora, spiegò in maniera inequivocabile che, nel lasciare momentaneamente la sede del suo ministero ordinario, egli era mosso da un senso rigoroso e specifico del dovere che avvertiva in quanto Pastore della Chiesa universale.
E ad ogni viaggio è corrisposto un bagno di folla…
La maggioranza non l’ha visto che da lontano. Sulle immense spianate dove ha parlato, lo si è sentito poco o male. Probabilmente sono pochi a ricordare il contenuto dei discorsi, mentre certamente molti ricordano la sua grande capacità di trovare i gesti giusti al momen¬to giusto: «Il suo bacio – scriveva un giornalista dopo un incontro con i bambini – era come un voler lasciare loro in fronte un marchio cristiano per il futuro, in un gesto quasi sacramentale più che di affetto… Quel bacio il bambino se lo sarebbe portato nel ricordo, il bacio del Papa, e forse lo avrebbe aiutato e mantenersi cristiano».
Quale è stato “il messaggio” di Giovanni Paolo II?
Persuaso che l’uomo porta in sé “il segno eterno di Dio”, Giovanni Paolo II non ha cessato di sviluppare nel proprio insegnamento la stessa tematica. Nell’enciclica Redemptor hominis (la prima) scrive: «L’uomo non può vivere senza amore, rimane un essere incomprensibile a se stesso, la sua vita è priva di senso; egli non riceve la rivelazione dell’amore se non incontra l’amore, se non ne fa l’esperienza e se non lo fa suo, se non vi partecipa fortemente. Per questa ragione Cristo Redentore rivela pienamente l’uomo a se stesso. Tale è la dimensione umana del mistero della Redenzione». Questo messaggio, proclamato ovunque, sempre con grande attenzione al contesto storico e culturale, è stato seme largamente sparso e depositato nel cuore di ciascuno, senza preoccupazione eccessiva di raccogliere, ben sapendo che Dio opera sempre, ma ha tempi e modi tutti suoi.
Gli ultimi anni sono stati caratterizzati da una grande sofferenza. Qualcuno auspicava addirittura un suo “abbandono”.
I media divennero categorici: l’ora di questo Papa era tramontata. Con evidente voluttà, le telecamere indugiavano sul suo invecchiamento, il passo sempre più esitante, la preoccupazione che si leggeva sul volto dei collaboratori in occasione di cerimonie pubbliche. Si spiegava con il morbo di Parkinson la sua crescente difficoltà di locuzione. Ma il Pontefice ha scelto di non nascondere le sue debolezze. Con il suo coraggio ha suscitato l’ammirazione del mondo ed interrogato l’opinione pubblica. La testimonianza data nel tempo della sofferenza e della malattia, con volontà determinata, ha toccato la gente forse più di tante sue parole.
Negli ultimi tempi, quando lo si avvicinava si aveva l’impressione di incontrare l’ombra di ciò che è stato, quasi una piccola fiamma. Ma quella fiamma brillava e non ha mai cessato di porsi all’ascolto dell’umanità sofferente. Sapeva bene – il Papa – che, per essenza, l’uomo è fallibile. Opporre la fragilità alla fragilità sarebbe una abdicazione. Ha considerato sua missione elevare dei pilastri e non ha esitato anche a piegarsi affinché questi possano rimanere in piedi. Sapeva che le mete che proponeva erano difficili da raggiungere. Ma non ha mai dubitato che la religione che aveva ricevuto in deposito era quella della misericordia.
Quale eredità ci ha lasciato il papa polacco?
Identificato fino in fondo con il suo compito, è apparso ai nostri occhi come fuso dentro al proprio carisma. Fornito di una dotazione speciale, la sua personalità è come esplosa in mille direzioni, reinterpretando il carisma di Pietro dentro i tempi nuovi. Ha riempito per oltre un quarto di secolo le vicende storiche, contribuendo con le sue miti spallate alla demolizione di un assetto soffocante ed insopportabile e all’instaurazione di un ordine nuovo. Ha riempito la vita della Chiesa, imprimendole una spinta nuova alla missione, ridandole fiducia nel guardare avanti proprio perché capace di interloquire con le generazioni del futuro. Ha riempito la nostra personale fantasia, lasciandoci spesso attoniti per la creatività e la vivezza del suo tratto. Per molti è stato il Papa della giovinezza, per altri il Papa della maturità, per tutti è diventato con gli anni il Papa tout court, quasi il prototipo, il conio nuovo di una figura antica. E come tale rimane vivo e amato nella nostra mente e nel nostro cuore.
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