La disoccupazione colpisce 290 milioni di giovani soprattutto in Asia e in Africa

Un’epidemia di disoccupazione ha contagiato tutto il mondo, mietendo vittime soprattutto tra i giovani nella fascia tra i 15 e i 30 anni.

Un articolo sull’Economist del 27 aprile fornisce ulteriori dati a conferma della diffusione, in tutti i Continenti, di quella che è una malattia per cui occorre assolutamente una cura, e stima che 290 milioni, circa un quarto dei giovani del pianeta, non stanno lavorando, né studiando. Le aree più colpite sembrano essere l’Asia meridionale e l’Africa settentrionale e orientale, gli stessi Paesi in cui il numero di giovani è più elevato.

Dei giovani “impiegati”, si calcola che nei paesi sviluppati più di un terzo svolga lavori precari, che non consentono di acquisire il bagaglio di esperienza necessario ad inserirsi stabilmente nel modo del lavoro; nei Paesi più poveri, invece, un quinto è sottopagato o lavora in nero.

Sembra che il mercato del lavoro soffra anche di un disaccoppiamento tra le competenze dei giovani e le competenze ricercate dai datori di lavoro. I Paesi in cui la disoccupazione è meno diffusa, sono anche quelli in cui vi è una relazione più forte e strutturata tra l’istruzione e il lavoro; la disoccupazione, di contro, è cresciuta proporzionalmente di più laddove non vi è formazione tecnica, dove ci sono molti laureati ma con poche competenze pratiche.

Infine, a livello strutturale, è cambiato il modo di produrre: tutto ciò che è lavoro routinario è ormai automatizzato o esternalizzato o delocalizzato in Paesi dove la manodopera costa pochissimo, mentre le aziende assumono solo per acquisire elevate e specialistiche competenze tecniche.

La disoccupazione segna pesantemente il futuro: in base alcuni studi, infatti, chi rimane senza lavoro da giovane, difficilmente riuscirà ad avere, nel corso della sua vita, un buon salario e un’occupazione stabile, oltre a dipendere più a lungo dalla famiglia di origine, con tutto ciò che ne consegue. Lavoro significa dignità, identità, indipendenza, significa trovare il proprio posto nella società. La disoccupazione si accompagna, invece, a demotivazione, depressione, disorientamento, scarsa partecipazione, in un circolo vizioso che produce ulteriore malessere.

Il quadro generale sembra indicare che per vincere la disoccupazione non basta sperare che questa crisi passi e che l’economia ricominci a crescere. Come far sì che si creino nuovi posti di lavoro? Come far sì che i giovani ricevano una formazione utile ed efficace? Come aiutare a chi è rimasto a lungo senza lavoro a superare il trauma dovuto all’esclusione, a recuperare delle certezze?

E nei Paesi mai usciti dalla povertà, in cui fino ad ora abbiamo cooperato e cercato di costruire qualche solida realtà di sviluppo, riusciremo a mantenerla in piedi, o sarà travolta dalla nostra stessa crisi, peggiorando ulteriormente le condizioni di vita di quelle popolazioni, permettendo nuove colonizzazioni e forme di sfruttamento? Di tutto questo sembra che nessuno voglia parlare chiaramente, forse per non produrre ulteriori tensioni sociali, forse perché i pochi ad esporre idee in proposito, propongono soluzioni che richiedono un cambiamento radicale nel nostro modo di concepire le relazioni economiche e sociali, nelle nostre abitudini di consumo e nel nostro rapporto con le risorse naturali.

Katia Gallo – Ufficio Missionario Diocesano