25 Luglio 2013
Torino città dell'eutanasia? Bluff radicale
Raccolte 5mila firme delle 50mila necessarie. Ma basta per dire che i loro ”valori” sono fiorenti? Quando si devono affrontare i grandi problemi della crisi, quando manca il lavoro e i bilanci familiari sono magri, quando è in gioco il futuro dei ceti popolari, da quel mondo non viene mai una proposta
Torino è la città dove si sono raccolte in assoluto più firme per il nuovo referendum radicale volto a legalizzare l’eutanasia. Sui banchetti del centro storico sono state registrate oltre 5mila adesioni, sulle 45mila complessive – 50mila sono quelle necessarie a presentare una proposta di legge d’iniziativa popolare. Per i Radicali torinesi è “un successo”, chiaramente. Un successo che, nelle cronache locali de “La Stampa” essi trasferiscono e attribuiscono alla “cultura” della città. Come dire che qui, più che altrove, si ritrovano fiorenti e coltivati quei “valori” di diritti individuali che i Radicali considerano non solo il sale della democrazia ma anche il senso della vita.
A noi pare che le cose non stiano esattamente così, non foss’altro perché qualche centinaio di voti in più di altre città non contribuisce a conferire nessuna particolare “patente di laicità”. La “quota” di Torino e del Piemonte nelle statistiche dell’Italia è intorno all’8%: 8% del prodotto interno lordo, 8% dei consumi e così via. Quando, come in questo caso, si raggiunge il 9%, dov’è la notizia?
Una verità è che la “cultura radicale” è ben presente in città, soprattutto in quei circoli che sono sempre accolti e ascoltati nelle pagine dei quotidiani laici, che “guidano” la cultura cittadina anche quando a questo primato di presenze e citazioni non corrispondono numeri e partecipazioni popolari (Se ricordiamo bene anni fa, alle elezioni comunali, Marco Pannella propose all’allora candidato sindaco Chiamparino di scegliersi come vice un esponente radicale. Chiamparino chiese: “Ma quanti voti porta?”. Si scoprì, a urne aperte, che ne portava meno di un migliaio; il vicesindaco di Chiamparino fu un popolare della Margherita…).
Ci sono poi altri argomenti, e più seri. La cultura radicale (ben più che il partito o l’organizzazione dei Radicali) ha sempre goduto, a Torino, di grande attenzione. È elemento di quella mitologia subalpina che si parla sempre addosso e sembra, per molti versi, essersi fermata ai tempi dell’antifascismo militante o a quelli, già meno gloriosi, di Luigi Firpo e Vittorio Gorresio. Ma questa cultura non rappresenta da sola Torino, né può pensare di egemonizzarne l’immagine. Soprattutto in tempi come questi, quando Torino è chiamata ad affrontare una delle crisi più dure e pesanti della propria storia, e le preoccupazioni dei cittadini vanno piuttosto al lavoro, ai bilanci familiari, alla necessità di costruire concrete prospettive di futuro. Intorno a questi “tavoli”, dove si ritrovano la Chiesa e le culture popolari, i rappresentanti delle istituzioni, del sindacato, degli stessi imprenditori, non si è mai sentito parlare di qualche contributo, qualche idea, qualche iniziativa che venisse dalla “cultura radicale”…
La campagna sull’eutanasia e le firme raccolte qui nascono al traino d’idee maturate altrove in Italia e in Europa; e a Torino e in Piemonte non riescono certo a tradursi, più che altrove, in atti di governo o di alta amministrazione. Qui, come in altre Regioni, sono state fatte scelte precise per favorire, più che l’eutanasia, la rete degli “hospices” e la “cultura” – questa sì andrebbe con la maiuscola – delle cure palliative (anche se, è ben vero, ci fu un governatore del Piemonte che dichiarò fin troppo in fretta la disponibilità della Regione ad accogliere “a qualunque costo” Eluana Englaro…).
Marco Bonatti
direttore “La Voce del Popolo” (Torino)
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