2 Febbraio 2015
Start up e dintorni

2 febbraio 2015
Sviluppare un’idea innovativa e concretizzare un apparato produttivo: i pro e i contro
Le start up sono nuove imprese, messe spesso in pista per sfruttare un’idea tecnologica o un’innovazione, realtà destinate magari a espandersi con molta virulenza, fino a diventare organizzazioni dominanti nel panorama high tech mondiale. Il nido delle start up tecnologiche è frequentemente la ricerca universitaria e molti atenei si sono, al riguardo, dotati di incubatori, destinati a sostenere il lavoro dei giovani e accompagnarli sulla difficile strada imprenditoriale. Per sviluppare un’idea e concretizzare un apparato produttivo ci vogliono, ovviamente, tanti soldi e le banche sono poco propense a finanziare le start up perché, in genere, mancano il substrato valutativo e le garanzie. Ma non basta il bagaglio tecnico e la classica lampadina accesa? Non sempre. Anzi, quasi mai. Specie in un momento come questo, caratterizzato dalla persistente paura delle sofferenze. A maggior ragione se non esistono precedenti e non è quantificabile la risposta del mercato al nuovo prodotto. Senza contare, poi, che il proponente si tiene spesso ben stretti i segreti tecnico operativi, per evitare che altri possano approfittarne. Il finanziatore non sarà quindi mai coinvolto nella stanza dei bottoni e risulta anche difficile attingere informazioni sul possibile sviluppo della domanda (ammesso che un simile studio esista e vada al di là dell’emozione scaturita dall’idea e dalle congetture sull’evoluzione dei gusti/bisogni). Solo gli intermediari più spregiudicati e all’avanguardia possono essere tentati di intervenire, magari senza sposare in toto il percorso creativo del ricercatore. La scelta di rischiare in questo campo è quindi dominata dall’azzardo emotivo e da previsioni troppo spesso fondate sul fascino, più o meno filtrato, del nuovo prodotto. Anche i precedenti, ovviamente contano, se non possiamo certo negare la segreta speranza di far tanti soldi, sulle orme, a esempio, dei guru di internet. Questa è una leva potentissima, capace di spiazzare dubbi e perplessità, una leva fortemente puntellata da una realistica aspettativa di poter piazzare la start up (e il suo bagaglio) a qualche protagonista del mercato, capace magari di pagare benissimo pur di aggiudicarsi il bambino prodigio. È quindi logico che, sbarrata la strada di accesso al credito bancario (per sua stessa natura più parsimonioso e intriso di analisi del rischio, più cauto e meno soggetto a risposte emotive, più rispettoso delle analisi e della carta), i rampolli tecnologici abbiano cercato appoggi presso gli investitori privati, professionali e non, puntando tutto sull’idea. Il privato è infatti condizionabile e subisce molto di più il fascino della speranza (e della speculazione), tende quindi a ricondurre il suo giudizio a pochi frammenti dell’iniziativa imprenditoriale, trascurando aspetti anche importanti, per mettere in primo piano la fame di guadagno. Ecco quindi il crowdfunding, cioè la ricerca di soci di minoranza (rigorosamente) capaci di apportare nuova finanza, senza inficiare il controllo dei fondatori sulla loro creatura. Tutto questo avviene tramite entità internet dedicate e presuppone, ovviamente, l’illustrazione dell’idea (per sommi capi e senza dettagli tecnici) e della possibile evoluzione. A tutte le proposte di finanziamento saranno assegnate delle quote della nuova società e i mezzi così raccolti consentiranno di consolidare lo schema operativo e avviare la produzione su piccola scala. Se son rose, fioriranno! Un’idea buona potrà portare bene o fallire miseramente, dipende dalla qualità dei presupposti, dalla preparazione, dalla realizzabilità in campo e, anche, dalle qualità gestionali dei fondatori (amministratori), quindi i rischi affrontati dai fornitori di denaro sono molti e tutti sorretti da quella incrollabile speranza di successo che spinge molti a mettere in gioco del capitale per guadagni potenzialmente elevati. È vero, in questo tempi grami si assiste al rifiorire della voglia di cimentarsi in proprio magari riflettendo sulla brutta fine di tutti quei giovani che, non trovando un’occupazione, aprono un negozio o una modesta attività per poi richiuderla velocemente con tanti soldi in meno e tanti debiti in più. Il crowdfunding può essere quindi un buon compagno di viaggio. La voglia di imprendere non può tuttavia chiuderci gli occhi fino ad appannarci la vista, sui rischi dietro l’angolo. Ecco perché i nostri Enti preposti al controllo del pubblico risparmio stanno andando con i piedi di piombo, frenando la voglia di rischiare dei possessori di denaro (specie se privati e poco esperti). Come un qualsiasi investitore deve conoscere i mercati e gli strumenti che ha intenzione di acquistare (e spesso è sorretto da analisi terze tendenti a focalizzare il rischio insito – vedi rating e altro), così anche i nuovi soci delle start up dovrebbero conoscere a puntino l’attività, il piano di business, i margini previsti, la sostenibilità finanziaria e patrimoniale nel tempo, le probabili risposte del mercato, l’ulteriore sviluppo della ricerca, le qualità del management e tutti i punti di forza e debolezza. Questo non certo per evitare il rischio di perdere la quota, ma, quanto meno, per ridurlo; senza puntare, solamente, sul cavallo vincente della cessione ai soliti padroni del business, come tanti ricercatori in giro per il mondo.
Sergio Martini
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