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Attualità  

La scuola è finita?

La scuola è finita?

L’anno scolastico, da quando la formazione è diventata obbligatoria, si svolge da settembre a giugno. Dopo l’unità d’Italia, dai due anni di scuola elementare per tutti, il periodo dell’istruzione si è dilatato sempre più, al punto che oggi, per alcune specializzazioni, prosegue fin verso i trent’anni d’età.

Un costo notevole per le famiglie e per lo Stato, ma con quali risultati? Il giovane che esce dalla scuola non sempre è preparato per il mondo del lavoro e, spesso, non lo è nemmeno dal punto di vista umano. Quasi tutti sono promossi con un minimo di impegno e, in una fase in cui si dispone di molte energie (fisiche e mentali), vengono a perdere di valore importanti caratteristiche, come lo sforzo, la fatica, la perseveranza. È un atteggiamento diseducativo, che non prepara i giovani alla vita che, in questo periodo, sta diventando più difficile. Diritti e doveri non sono ben equilibrati e sovente il regolamento d’istituto, dove esiste, non viene rispettato. I giovani a scuola si annoiano, sentono estranei i contenuti trasmessi; quello che conta è il loro rapporto con i compagni, ma anche in questo caso ci possono essere degli eccessi, con atteggiamenti che prendono di mira la ragazza con il fisico non proprio da top model o il ragazzo introverso. Bravi figli, nipoti affettuosi, in compagnia si trasformano e commettono azioni che, da soli, non farebbero mai. Essere esclusi dal gruppo ed essere da questo tiranneggiato è un dramma peggiore della bocciatura. Dopo che sono state percorse tutte le strade nel campo della formazione (educazione civica, educazione stradale, educazione sessuale, ecc.) ci si è accorti che, spesso, è venuta a mancare l’educazione pura e semplice. I mezzi di comunicazione, di tanto in tanto, riportano avvenimenti eclatanti di quel microcosmo che è la scuola. Gesti paradossali compiuti da insegnanti, allievi, operatori scolastici non fanno che evidenziare lo stato di difficoltà in cui si dibatte l’intero settore. Insegnare, alla lunga, stanca. Si nota una disaffezione verso questa professione, a metà strada tra la missione e l’assolvimento di pratiche burocratiche. Non vi sono dati nazionali ma sono illuminanti quelli raccolti a Torino, Verona e Milano, pubblicati sulla rivista “La Medicina del Lavoro”, da cui risulta che il 70 per cento degli accertamenti medici tra i docenti, si conclude con una diagnosi psichiatrica. Significativo al riguardo è anche il libro “Pazzi per la scuola” del dottor Vittorio Lodolo D’Oria, studioso del disagio mentale professionale dei docenti. Viene tracciato un panorama desolante, che evidenzia le difficoltà dell’insegnamento, attività che, in casi estremi, provoca vere e proprie malattie con disturbi nervosi, insonnia, alcolismo. L’aula scolastica è diventata una piazza su cui chiunque può gettare lo sguardo, venendo a conoscenza degli aspetti più deleteri con il rischio, sempre in agguato, di una superficiale generalizzazione. Chi mette in piazza quanto succede è sempre degno di credibilità? Qual è lo scopo della sua azione? Alcuni siti internet fanno a gara per pubblicare le cose più pazze, per cui si innesca un meccanismo di imitazione, in un crescendo continuo, per poter apparire e godere di qualche istante di celebrità. Il rispetto, la lealtà diventano parole senza senso. Conta soltanto diventare protagonisti e stare, nel bene o nel male, sotto i riflettori (significative al riguardo sono alcune trasmissioni televisive molto seguite dai giovani). Una vita di studio, di lavoro, ma nell’ombra, appare un’occasione sprecata. Grande spazio viene dato dai mezzi di comunicazione ai teorici della vita “spericolata”, dello sballo, che non si limitano solo a profetizzare ma, spesso, mettono in pratica quello di cui parlano, fornendo modelli di notevole attrazione sui giovani.


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I rave party sono solo la punta dell’iceberg di queste filosofie di vita: un’esistenza senza regole, in promiscuità, con tanta musica, alcol e droghe. Un tempo, riuscire a conseguire un diploma era garanzia di un posto di lavoro migliore, una forma di promozione sociale per i figli di operai e contadini. Oggi, neanche la frequenza ai vari master garantisce altrettanto. Aumenta sempre di più il numero di giovani che non vogliono né studiare, né lavorare, che vivono senza uno scopo. La legge impone la frequenza fino ai sedici anni, ma alcuni ragazzi vanno a scuola senza voglia di studiare e passare 5 o 6 ore nei banchi, quando non si è coinvolti, diventa un peso. Cominciano così le azioni di disturbo, il tentativo di attirare l’attenzione dei compagni in qualsiasi modo. A nulla servono i richiami, le note disciplinari sui registri di classe, le sospensioni. Per garantire il diritto allo studio a tutti, anche a chi non sa cosa farsene di questo diritto, si finisce col non garantirlo a nessuno, perché bastano due o tre (e a volte anche un solo allievo) a paralizzare l’attività didattica. Che fare? Ci sono progetti, dal titolo accattivante, che trattano di come la scuola dovrebbe essere e si nasconde la testa per non vedere come è in realtà. Vengono invitati a parlare esperti ed ex allievi che hanno raggiunto il successo; tutti concordano nel condannare il bullismo e altri atteggiamenti negativi ma, appena rimesso piede nell’aula, si torna al punto di partenza. Il confronto con altre culture è eclatante. Un’insegnante italiana delle superiori, di ritorno da uno scambio scolastico in Cina, è rimasta stupefatta del loro sistema. In una classe di 54 allievi nessuno fiatava, perché gli studenti, non solo non potevano parlare tra loro ma non potevano nemmeno rivolgere domande al loro docente. Durante la visita dell’Istituto, che si è conclusa venti minuti dopo il termine delle lezioni pomeridiane, gli allievi sono stati lasciati da soli in classe: sono rimasti tutti al loro posto in silenzio e hanno lasciato l’aula ordinatamente, solo dopo che il loro insegnante ha dato l’assenso. Impensabile in una scuola italiana. Per imparare, il primo passo è ascoltare, ma per ascoltare è necessario il silenzio; invece ascolto e silenzio sono diventate caratteristiche rare nelle nostre aule scolastiche. Ci sarebbe poi anche l’attenzione, altra qualità in via di estinzione. Fare, agire, avere è più importante di riflettere, pensare, essere. Ascoltare musica, giocare al calcio o a qualche altro sport, collegarsi a internet, guardare la Tv; i giovani di oggi sono in uno stato di agitazione continua, circondati da immagini e rumori. I momenti in cui sono costretti all’immobilità, a pensare, al silenzio sono relegati alla malattia, all’infortunio, a particolari stati d’animo che, in quanto tali, sono vissuti come esperienze negative. Hanno come modelli i deejay che parlano per ore, ridacchiano, dicono cose senza senso e quando affrontano temi di una certa serietà li esauriscono in dieci secondi. Questi moderni intrattenitori, nella maggior parte dei casi, non comunicano veramente nulla, ma fanno solo da colonna sonora, eppure hanno un largo seguito, con il risultato che ognuno si crede al centro dell’universo ed esiste solo quello che conta per lui. I giovani di oggi fanno molteplici esperienze di cui, però, non accolgono il reale significato. Anche le relazioni interpersonali hanno una durata limitata, in netto contrasto con le scritte, che tappezzano chiese, musei, strade, nelle quali ci si giura amore per sempre. C’è un tempo per ogni cosa, per i sentimenti e per l’impegno, per il lavoro e per lo svago, per la serietà e per il divertimento. Invece tutto questo, a scuola, viene confuso in un caos continuo. La scuola deve ritornare ad avere un minimo di credibilità perché svolge una funzione importante per la società. I giovani devono riscoprire il valore della formazione, ora messo dietro a tanti altri interessi, spesso all’ultimo posto della graduatoria.

Giuseppe Campanaro

 

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