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Attualità  

Riflettendo sulla presidenza di Donald Trump

Riflettendo sulla presidenza di Donald Trump

Difronte alla sconfitta elettorale di Donald Trump, ho notato – in ambiente cattolico – reazioni diverse e contrastanti, spesso fino all’esplosione ultras. Urge un atteggiamento più equilibrato, in grado di far rispettare il “Veritas est adaequatio rei et intellectus”, di cui parla San Tommaso d’Aquino. Trump non è né un mostro né un principe della Chiesa; è un uomo, e come tale presenta luci e ombre; perciò tornerà utile considerarlo come un semplice, ma non banale alleato tattico (al pari dei responsabili di Lega, FI e FdI: al riguardo, avevo scritto una riflessione per il settimanale Tempi  (leggi qui).

Nel tentativo di fornire dei dati in grado di facilitare l’aderenza alla realtà, proverò a sottolineare alcuni aspetti significativi della presidenza del quarantacinquesimo presidente USA.

Politica interna

Partiamo da ciò che sicuramente colpisce di più occhio e udito: la comunicazione del nostro. Normalmente il suo linguaggio è forte e colorito…Va capito… sebbene non vada accolto positivamente in toto: scorretto può diventare pericoloso quanto quello corretto, se se ne abusa… Non mi stancherò di dirlo: noi cattolici non dobbiamo trascurare il tema della comunicazione. Impariamo da autori come Chesterton, Tolkien, Marshall McLuhan, Flannery O’Connor, il nostro Guareschi, i “televisivi” Fulton Sheen e Madre Angelica P.C.P.A.

Dicevo, però, che va capito… giacché ha dovuto affrontare il potente fronte degli “asinelli americani” dalle magnifiche sorti e progressive: politici, i filantropi (Bill e Melinda Gates, Warren Buffet, Soros etc) le stelle dello showbiz, chi guida le potenti multinazionali del web (Microsoft, Google, Facebook, Amazon etc).

I “democrat” hanno tra i loro modelli un personaggio lugubre, Saul Alinsky, ché insegnò loro a usare le minoranze per ottenere potere. Questi fu teorico della rivoluzione radicale di massa finalizzata alla distruzione dei valori tradizionali della società occidentale. La sue idee hanno modificato il concetto di democrazia negli USA (lo riconobbe il Time del 2 marzo 1970). Egli concepì un modello organizzativo modulato sul concetto gramsciano della conquista del potere, e propugnò come orizzonte valoriale un assoluto relativismo etico. Reveille for Radicals (1946) e Rules for Radicals (1971) sono i suoi libri più importanti; in particolare il secondo, il più inquietante, dato che è stato dedicato al primo rivoluzionario della storia, Lucifero.

Al gioco dei toni e modi duri, per deligittimare l’avversario, hanno giocato anche loro, falsi “puri che epurano”. Si pensi all’uso dell’offensivo “deplorables” da parte della Clinton contro i sostenitori di Trump, durante la campagna elettorale del 2016. Ai vari tentativi, nel corso dell’amministrazione Trump, di impeachment fondati su teoremi inconsistenti come il Russiagate. Che non avevano nessuna possibilità di andare in porto, stante la maggioranza repubblicana al Senato, ma che avevano il solo scopo di delegittimare il presidente in carica. Al gesto eversivo di Nancy Pelosi, presidente democratica della Camera, che strappò in diretta televisiva una copia del discorso dell’Unione che Trump stava leggendo davanti al Congresso. Alla presenza di importanti militanti democratici tra i vandali di Capitol Hill, come John Sullivan.

Tutti accomunati dal voler diffondere mali travestiti da giusti diritti, quali il gender, le adozioni gay, il controllo delle nascite, l’aborto (addirittura fino al nono mese, nello stato di New York), il consumo di droghe, l’eutanasia, la “cancel culture” (tipica degli “anti-fa” e dei “black lives matter”) e via discorrendo… L’ultima è la pseudocultura che assolutizza il punto di vista di chi la diffonde e relativizza tutto il resto (compresi ogni passato e ogni tradizione), arrivando a cancellarlo, come dimostrano le distruzioni delle statue (tra cui quelle di Cristoforo Colombo) che celebrano la storia americana, avvenute negli ultimi due anni. Mi si conceda di fare un parallelismo: qualcosa di simile ha fatto lo stato islamico in città storiche (come Palmira) tra Siria, Iraq e Yemen. D’altronde, le ideologie appaiono diverse ma, in realtà, sono uguali nella violenza che concretamente rivolgono a chi considerano nemico.

Quindi, si tratta di tipini poco simpatici, che fanno scelte contro l’uomo e le sue radici, e non vanno appoggiati nemmeno per sbaglio.

Così si può capire perché Trump ha rimosso – non appena insediatosi nel gennaio 2017 – dal sito della Casa Bianca l’intera sezione dedicata ai pseudo-diritti lgbt fortemente voluta e alimentata dall’uscente amministrazione Obama; attraverso di essa il presidente teneva informati i suoi elettori e le lobby gay sullo stato di avanzamento delle iniziative legislative lgbt. Ma la sua azione contro l’ideologia gender non è andata oltre simili scelte, che a posteriori si possono considerare sorta di “spottoni” pro domo sua. Non ha favorito una comunicazione politica e una cultura in grado di distinguere la persona dall’atto disordinato che la ferisce, allo scopo di strappare la prima alla contrapposizione ideologica che aspira a sottometterla al secondo. Questo è ciò che chiunque sia dotato di ragione (cattolico e non) dovrebbe volere.

Bisogna poi aggiungere che – come hanno sottolineato acuti osservatori della politica – l’attuale polarizzazione presente negli USA non è dovuta al trumpismo ma a un processo avviatosi lì e nel resto del mondo più di vent’anni fa (come ricordano La ribellione delle élite di Lasch e Dentro la globalizzazione di Bauman). È stata favorita dalla globalizzazione, che ha provocato il declino economico in occidente e l’ascesa delle tigri asiatiche, Cina in testa. Essa si pone tra una compatta super-élite cosmopolita (costituita da borghesia tecno-intellettuale e libertina, industria high-tech, grande finanza, organizzazioni internazionali, le multinazionali dell’intrattenimento e il settore dell’informazione mainstream) e il “popolo” dei ceti medi, dei colletti blu, marginale e sempre più emarginato dai processi di globalizzazione. In mezzo a tutto questo, Trump è riuscito (sebbene non gli manchino i rapporti con una parte considerevole dell’alta finanza di Wall Street) a interpretare il ruolo di rappresentante dei dimenticati o forgotten people con abilità, mantenendo viva la pressione anti-establishment. Anche nella gestione dell’epidemia di Covid-19, egli è riuscito ad attuare delle misure che sono state in grado di contenere – a confronto di gran parte d’Europa – i danni sanitari, consentendo una rapida ripartenza dell’economia. Va riportato che tale gestione non è molto piaciuta  a quella  stessa working class, che lo aveva premiato nel 2016; molto probabilmente perché non ha apprezzato la comunicazione e i modi troppo bruschi dell’ex presidente.

Tra l’altro, il famoso muro o “fences” tra USA e Messico, che ha tanto scandalizzato, non è stato costruito dall’amministrazione Trump; esisteva già da prima: lungo 700 miglia, ovvero 1.127 chilometri, è frutto del lavoro  congiunto delle amministrazioni Clinton, Bush Jr e Obama. Non a caso il secondo votò Hillary Clinton nel 2016 e con il terzo ha fatto disastri in Iraq, contribuendo alla nascita dell’Isis, non catturando il suo fondatore Abu Musab al-Zarqawi. Il muro di Trump non è stato neanche terminato; se ci fosse riuscito, avrebbe fatto aggiungere soltanto poco più di 450 miglia (circa 725 km).

Trump ha favorito l’arrivo alla corte suprema della cattolica Amy Barrett, allieva della buonanima di Antonin Scalia, giudice molto autorevole della stessa corte, voluto da Reagan. Scalia era propugnatore dell’originalismo costituzionale: i giudici hanno il compito di attenersi fedelmente alla lettera del testo originale della Costituzione; quindi, non possono disfare e “ricreare” le leggi secondo il proprio capriccio ideologico, come sanno fare i “democrats” (USA e nostrani).

Il nostro si è definito “difensore più convinto della vita che abbia mai abitato alla Casa Bianca”. Però, in passato è stato anche pro-choice… Perciò, dietro le sue recenti scelte, non è difficile percepire dell’opportunismo; certo, in questo caso “sano”.

Uno dei suoi primi atti da presidente neoeletto è stata la messa al bando dei finanziamenti Usa per le ong che praticano o promuovono l’aborto nel mondo.

Di conseguenza, ha bloccato i finanziamenti del governo federale alle organizzazioni non governative internazionali che praticano o informano sull’interruzione di gravidanza all’estero. Ma non era la prima volta che un presidente americano introduceva questa regola, chiamata “Mexico City Policy”. Era stata introdotta dall’amministrazione di Ronald Reagan nel 1985 e poi ha sempre diviso i Repubblicani, che di norma hanno posizioni antiabortiste, e i Democratici: Bill Clinton la eliminò nel 1993, George W. Bush la ripristinò nel 2001, Barack Obama la eliminò nuovamente nel 2009.

In concreto si è trattato di un taglio ai finanziamenti che provengono dal cosiddetto Titolo X, cioè un capitolo di spesa pubblica promosso nel 1970 dal Congresso per favorire quella che viene definita pianificazione famigliare, ma che nello stesso tempo vieta che i soldi finiscano a sostenere pratiche di aborto. Nel 1988 l’amministrazione del presidente Ronald Reagan rinforzò questo divieto affinché i proventi del Titolo X – circa 260 milioni di dollari all’anno -non finissero a promuovere pratiche abortive, o strutture che consigliassero o indirizzassero verso tali pratiche.

Insomma, Trump è voluto tornare alle regole del suo predecessore repubblicano, per svincolare quei fondi dalle pratiche abortive, facendo in modo che i contributi non siano erogati a meno che le strutture non separino completamente la loro attività di aborto dai loro servizi finanziati dai contribuenti. Il colpo è stato forte soprattutto per il più grosso centro di pianificazione famigliare e abortivo degli Stati Uniti, Planned Parenthood, la più grande impresa di aborti in America, che ogni anno impedisce la nascita di 320.000.

Si è schierato contro l’obamacare: un provvedimento che, oltre ad assicurare la copertura e l’accesso alle cure sanitarie per milioni di cittadini, soprattutto i più poveri, obbligava i datori di lavoro a sostenere, tra le prestazioni sanitarie per i propri dipendenti, le spese di anticoncezionali e farmaci abortivi. Questo anche per gli istituti di natura religiosa. Tipico dei governi sinistrorsi, i quali usano le buone proposte come cavalli di Troia in cui inserire obiettivi non buoni. Un provvedimento che fu molto combattuto. Le più battagliere sono state le suore “Piccole sorelle dei poveri”, che gestiscono decine di case di assistenza per i bisognosi.

Per quanto concerne il rapporto con le minoranze: i sondaggi riportati da UCLA Nationscape, poco tempo prima delle recenti elezioni, rilevavano un forte appoggio a Trump da parte dei giovani afroamericani (21%; nel 2016: 11%) e da parte dei giovani ispanici (35%; 22%, 2016). Non si può certo dire che Trump sia un “suprematista”.

 

In politica estera

Ha tenuto a bada i comunisti cinesi, gli stessi con cui Biden e suo figlio Hunter hanno fatto affari: questi è ora indagato; ha tranquillizzato Kim Jong-Un, favorendo un clima distensivo tra le due Coree. Con lui non abbiamo assistito ai conflitti degli “esportatori di democrazia” come Bush Jr, Obama (prese pure il premio Nobel) e Clinton. Ma soprattutto non ha spiato gli alleati.

Nel 2010 Wikileaks diffuse dei “diplomatic cable”, ossia dei rapporti ufficiali scritti da funzionari e ambasciatori facenti capo al dipartimento di Stato americano e aventi come oggetto le interazioni tra funzionari americani o tra questi e ambasciatori o funzionari di governi stranieri. In essi si poteva leggere che il governo americano (obamiano) teneva segretamente sotto controllo la leadership delle Nazioni Unite, incluso il segretario generale Ban Ki-Moon e i rappresentanti dei paesi con seggi permanenti al Consiglio di sicurezza, Cina, Russia, Francia e Gran Bretagna.

Una direttiva contenuta nei rapporti diffusi da Wikileaks, infatti, mostrava come Hillary Clinton avesse chiesto ai funzionari del dipartimento di Stato americano di reperire password e chiavi crittografate usate dagli alti funzionari delle Nazioni Unite, sia in privato che nelle loro comunicazioni ufficiali, e dettagliate informazioni biometriche. Inoltre, chiedeva di conoscere “i metodi di gestione” di Ban Ki-Moon e “la sua influenza nella segreteria”.

Certo, in Oriente lui e il segretario di stato, Mike Pompeo, potevano giocarsela meglio. Lo ricorda bene il documento sulla strategia trumpiana in quella parte di mondo, desecretato circa due settimane fa dalla Casa Bianca. Non si chiama più Asia-Pacifico ma Indo-Pacifico, giacché comprende tutta l’area anche dell’India e del sud-est asiatico. La strategia è stata principalmente rivolta a contenere la Cina e ad accelerare l’ascesa dell’India”, pur mantenendo la centralità della presenza americana in Asia orientale; ma sacrificando la cura dei rapporti con gli storici alleati, come il Giappone e la Corea del Sud. In questo modo si rischia, con la presidenza Biden, al momento non troppo critica verso Pechino, di non vedere nessun fronte compatto di nazioni indo-asiatiche, coordinate dagli USA allo scopo di contenere la Cina e ammorbidire la Corea del nord.

 Anche in Medio Oriente si è rischiato grosso. Il riconoscimento di Gerusalemme come capitale israeliana, per accontentare sia i sionisti e sia il genero, non è stata proprio un toccasana per i delicati rapporti tra Israele e l’autorità per la Palestina. Nemmeno l’omicidio del generale iraniano Qasem Soleimani – 3 gennaio 2020 – è stato meno azzardato per la stabilità dell’intera regione mediorientale.

Ha rischiato di far saltare il governo Assad (non è uno stinco di santo, chiaro) in Siria, causando così un conflitto con la Russia e favorendo la Turchia, le organizzazioni e i gruppi armati che si camuffano da democratici, ma in realtà sono filo-islamisti. In passato questi hanno anche beneficiato dell’appoggio di Obama e di Hillary Clinton; lo dimostrano una serie di email riguardanti Hillary Clinton, del periodo in cui era segretaria di stato (2009-2013), rese pubbliche dalla presidenza Trump nell’autunno scorso. I “Democrats” avevano rapporti con l’organizzazione islamista radicale dei Fratelli Musulmani, in particolare dal periodo precedente allo scoppio delle cosiddette “Primavere Arabe” (2010-2011) fino alla caduta in Egitto dell’esecutivo islamista di Mohamed Morsy nell’estate del 2013. Attenzione, non c’è solo questo; dai documenti rilasciati emergono stretti rapporti tra l’amministrazione Obama e l’emittente televisiva qatariota Al Jazeera, notoriamente vicina alle posizioni dei Fratelli Musulmani; non è del resto un caso che il Qatar resti il principale sponsor mediorientale dell’organizzazione islamista radicale, assieme alla Turchia. I Fratelli Musulmani, visti all’epoca come nuova alternativa democratica ai regimi come quelli di Gheddafi, Mubarak, Ben Ali e Bashar al-Assad

E ancora. Nel maggio 2015, Judicial Watch – un gruppo conservatore americano -, rese pubblico un rapporto top secret della Dia (Defense Intelligence Agency), i servizi segreti del Pentagono. Il documento, 7 pagine, datato 12 agosto 2012, espose il solito errore geopolitico di sempre. La Dia prevedeva e convalidava la creazione di uno stato islamico per sbarazzarsi del presidente siriano Bashar al-Assad.

 Però neanche Trump ha troppo frenato l’islamismo e i suoi fautori… Il 20 maggio 2017 ha firmato, durante una sua visita a Riad, un importante accordo commerciale con Salman, il settimo re dell’Arabia Saudita, in base al quale Riad avrebbe comprato armi e sistemi di difesa dagli Usa per 110 miliardi di dollari. Si prevedeva di arrivare alla cifra record di 350 miliardi di dollari in dieci anni; per la gioia del principale beneficiario, Lockheed Martin, che in quella circostanza aveva già pronto per Riad un sistema missilistico Thaad che da solo valeva più di un miliardo di dollari, oltre che satelliti e sistemi software per il controllo dei missili.

Il 15 settembre 2020, ha ospitato e sostenuto, alla Casa Bianca, la firma degli accordi di pace da parte di Israele, Emirati Arabi Uniti e Bahrein. Certo, così si è assicurato un migliore rapporto tra la Lega Araba e lo stato ebraico… però non si è chiesto ai due Paesi arabi di non continuare ad appoggiare il fondamentalismo (segreto di Pulcinella).

Da considerare con attenzione: la sopracitata Arabia Saudita, gli Emirati e il Bahrein sono tra le petromonarchie del Golfo Persico (Kuwait, Qatar, Oman) che hanno cospicuamente foraggiato i movimenti terroristi jihadisti e le milizie islamiste (nel solco tracciato da una strategie degli anni ‘70) in Siria, nel resto del Medio Oriente, nel Nord Africa e non solo; favorendo, quindi, la nascita dello Stato islamico.

Tanto è vero che (e ricito) Wilkileaks faceva emergere, dai “diplomatic cable”, questa ammissione  per conto di funzionari americani: “I sauditi rimangono i maggiori finanziatori del terrorismo internazionale, e il Qatar – a lungo alleato americano nell’area – è stato il peggiore nella regione in quanto a lotta al terrorismo. Il servizio segreto del Qatar è stato incerto nell’agire contro noti terroristi, perché temeva di essere percepito come allineato agli americani e subire quindi delle rappresaglie”.

 Ovvio, Trump – al pari di alleati e rivali: non pochi repubblicani e democratici condividono la passione neocon, l’esportazione della democrazia liberale occidentale, anche con la forza  – non è stato l’unico ad affrontare la geopolitica in modo grossolano.

Nel 2016 Rend Paul, senatore, libertario, non-intervenzionista, che era in corsa come candidato repubblicano alla Casa Bianca per le presidenziali, asserì a Morning Joe su Msnbc (programma televisivo quotidiano americano): “L’isis è sempre più forte perché i falchi – come i suoi colleghi Lindsey Graham e John McCain (quest’ultimo sconfitto da Obama nel 2008), esperti di affari esteri – nel nostro partito hanno fornito indiscriminatamente armi agli estremisti. Volevano far fuori Assad e bombardare la Siria. Sono stati loro a creare questa gente”. E poi: “Tutto quel che i falchi hanno fatto e detto in politica estera negli ultimi 20 anni riguardo a Iraq, Siria e Libia, lo hanno sempre sbagliato”.

 Ne parlò nel 2015 perfino l’attuale presidente, che allora era il vice di Obama, in un discorso per l’Università di Harvard. Biden accusò i Paesi musulmani alleati Usa – Turchia, Emirati Arabi Uniti, Arabia Saudita e Qatar – di non fare abbastanza per combattere Isis e, peggio, di essere loro i finanziatori del gruppo che ha preso il posto di Al-Qaeda (surclassando in un anno i seguaci di Osama bin Laden per brutalità, strategia,  soldi e marketing mediatico).

Sempre Biden. Il 7 ottobre 2014, “l’uomo onesto a Washington” (così venne definito), si lasciò sfuggire (dovrebbe esserci ancora il trascript del programma) durante un suo intervento per Cnn il 7 ottobre 2014: “Hanno fatto piovere centinaia di  milioni di dollari e decine di migliaia di tonnellate di armi nelle mani di chiunque fosse in grado di combattere contro Assad, peccato che chi ha ricevuto i rifornimenti erano… al Nusra, al Qaeda e gli elementi estremisti della Jihad provenienti da altre parti del mondo”.

L’amministrazione Obama presentò scuse formali e ritrattazioni. Ma in privato, funzionari della Casa Bianca ammisero che “mentre il vice-presidente è stato poco diplomatico, la sua posizione non è errata quando dice che soldi e armi sono finiti nelle mani di estremisti”.

 

Ora, che cosa potrebbe succedere nel futuro prossimo venturo:

Se Trump evita il vittimismo a oltranza – non ne ha bisogno, proprio perché i suoi sospetti sulla validità del voto per corrispondenza e i sistemi informatici non sono infondati: non assicurano onestà e trasparenza – accorgendosi che, oltre alla sconfitta formale, agli esiti infausti dei ricorsi in corte suprema, ha ottenuto una sostanziale vittoria politica, suffragata da una percentuale molto alta di cittadini americani, potrebbe far un ottimo lavoro all’opposizione in previsione di una ricandidatura; anche perché gli avversari non sono cime, in particolare Biden/sleepy Joe… hanno solo amici potenti; se invece continuasse a frignare, rafforzando gli aspetti imbarazzanti del suo carattere, beh disperderebbe senz’altro il consenso guadagnato, facilitando le cose ai colleghi cui non dispiacerebbe accompagnarlo alla porta del partito repubblicano. Non dimentichiamolo, Trump è un outsider della politica americana: nemmeno i “suoi” lo sopportano troppo; se si presenterà questa situazione, varrà la pena sperare di vedere il cattolico Rick Santorum alla guida del Gop (Grand Old Party/partito Repubblicano).

 Daniele Barale

 

Il presidente uscente degli Stati Uniti, Donald Trump

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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