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Attualità  

L’esercizio della memoria

L’esercizio della memoria

24 gennaio 2015

Settant’anni fa, il 27 gennaio 1945, le truppe sovietiche dell’Armata Rossa liberavano il campo di concentramento di Oświęcim, in Polonia. La vicissitudini della famiglia Diena, di padre Giuseppe Girotti e la testimonianza di Vera Jarach Vigevani

L’epopea della famiglia Diena
Dietro a ogni cerimonia commemorativa, aldilà dei discorsi pronunciati in pubblico e agli echi collaudati della memoria collettiva, c’è una saga corale, arricchita da mille sfumature.
Ho appreso parte delle vicende della famiglia Diena dalla professoressa Floriana Putaturo, vedova di Giorgio, deceduto un paio di anni or sono. Una bella signora, madre felice di tre figli e nonna entusiasta di sei nipoti, che mi ha ricevuto nella sua casa torinese palpitante di ricordi e di poesia.
La tragica morte del padre e del fratello di Giorgio è nota. Il babbo, Giuseppe Diena, affermato gastroenterologo già impegnato come volontario nel settore sanitario durante la prima guerra mondiale, docente universitario all’università di Torino, venne ucciso a bastonate nel campo di concentramento di Flossenburg, colpevole di difendere a oltranza i più deboli e di cedere le sue razioni alimentari a sventurati compagni di prigionia. Poco prima di morire, era intento ad imboccare un anziano sfinito.
Il fratello, Paolo, medico, morì partigiano vittima del fuoco nemico a Cotorauta di Inverso Pinasca. Sui monti morirà anche un cugino, Sergio Diena.
Ma questo è soltanto l’epilogo terreno di complessi percorsi umani, vibranti di generosità e coraggio. Giuseppe Diena, medico ebreo non praticante e spirito libero, sposò Elettra Bruno, impiegata postale, cattolicissima. Si conobbero in tram, a Torino, quando lui le cedette galantemente il posto. Ciascuno dei due rispettò sempre scrupolosamente l’identità culturale e religiosa dell’altro. Sovente, il professore accompagnava sua moglie a messa. Elettra, che i discendenti ricordano affettuosamente come mamma Ele, dedicava ogni giorno alcune ore alla preghiera e alla meditazione. Unica figura femminile del nucleo, è stata sempre amata, coccolata, accontentata e protetta il più possibile. Era una donna elegante, minuta, dedita a tutto ciò che rappresentava armonia e bellezza, ma soprattutto votata a silenziosa e concreta beneficenza. Si è prodigata per i meno fortunati tutta la vita.
Per le leggi razziali vigeva il principio romano della “mater certa”, quindi entrambi i figli della coppia dovevano risultare cattolici. Ma per un ghiribizzo burocratico il primogenito risultava ebreo e il secondo figlio cattolico. Non furono circoncisi perché tale pratica era costata la vita a un neonato di famiglia.
Quando in casa Diena viene rinvenuto un opuscolo contro la guerra, Giuseppe e Giorgio vengono incarcerati alle Nuove. Paolo è militare. Giorgio viene rilasciato, Giuseppe rimarrà in carcere per molto tempo, senza mai tradire nessuno.
Con l’inasprirsi delle persecuzioni contro gli ebrei, dopo l’8 settembre, la famiglia si sparpaglia, la casa di sempre in Via Mazzini viene saccheggiata per due volte. Giorgio e Paolo si uniscono ai partigiani di Giustizia e Libertà sulle montagne valligiane. Mentre i genitori vengono accolti da una comunità di Suore della Redenzione a Villa Scott.
Una sincera, inconsueta amicizia li unisce a un frate domenicano, Padre Giuseppe Girotti, un legame che si proietta oltre ogni diversità di opinione. Il frate è un anticonformista, un ribelle che combatte con estremo vigore contro ogni sopruso e si reca sovente a visitare Giuseppe ed Elettra: finché teme di essere spiato e li consiglia di cambiare nascondiglio. I Diena ripiegano allora presso la famiglia Bona, a Cavoretto.
Un giorno, mentre Elettra è fuori alla ricerca di un nuovo nido, alcuni malintenzionati riescono a carpire la buona fede del professore: fingono di avere in auto un ferito grave, bisognoso di cure. Con loro, a guidarli fin là, l’ingenuo Padre Girotti, caduto nel medesimo tranello, persuaso che il finto malato sia uno dei figli di Diena, che lui non conosceva direttamente. Le porte di casa Bona si spalancano e subito dopo tutti vengono arrestati: Giuseppe Diena, Padre Girotti, la famiglia Bona al completo, salvo la nonna Felicina. Qualcuno, che conosceva bene l’altruismo del dottore e del frate, ha lavorato nell’ombra per consegnarli ambedue a morte certa.
Giuseppe Girotti, nato ad Alba, muore all’età di trentanove anni nel campo di sterminio di Dachau, il 2 marzo 1945. Nel 1995 viene riconosciuto “Giusto tra le Nazioni” e nel 2014 viene canonizzato ufficialmente da Papa Francesco.

Edi Morini

Vera Jarach Vigevani, tra Shoah e desaparecidos
Vera Jarach Vigevani, classe 1928, giornalista ebrea di origini italiane, ha fondato insieme a molte amiche il movimento delle Madri di Plaza De Mayo. Ha pagato all’intolleranza un doppio, doloroso tributo: il nonno materno, Ettore Camerino, è morto ad Auschwitz. Mentre sua figlia Franca, nel 1976, è stata vittima dalla dittatura argentina.
«Mia madre – racconta Vera – aveva intuito le tristi conseguenze delle leggi razziali e ha convinto il mio recalcitrante papà ad emigrare a Buenos Aires. Il nonno non volle saperne e purtroppo ho visto di recente il suo nome scritto tra gli altri, visitando il binario 21 a Milano. Finita la guerra, nessuno di noi (a parte mio padre, che cedette alla maggioranza) desiderò tornare in Italia. Mia sorella era sposata, io fidanzata: restammo in America Latina. Sono diventata giornalista e ho sposato Giorgio, ingegnere, ebreo non praticante, come i miei familiari. Siamo stati una coppia totalmente felice, allietata dalla nascita di Franca, il 19 dicembre 1957. Abbiamo vissuto anni belli, traboccanti di soddisfazioni professionali ed emotive, in una realtà che pareva riservarci solo il meglio.
La nostra unica, stupenda, affettuosa figliola ci ha garantito soltanto gioia. Era studiosa, generosa, sportiva, una ragazza intelligente e curiosa, dai mille interessi, attratta da tutto ciò che era giusto, bello. Le piaceva suonare il flauto; sciare; camminare in montagna; dipingere; recitare. In casa nostra piombavano allegramente i suoi amici e con loro abbiamo condiviso arrampicate, regate, campeggi, ideali. Franca è stata fidanzata, pienamente amata, felice: mi piace ricordare quanto la sua breve esistenza sia stata gioiosa.
Conservo le sue pagelle: ricche di bei voti, tra cui spicca la “cattiva condotta”. Si ribellava puntualmente a qualunque ingiustizia, coinvolgendo l’intera classe con slancio. Quando la dittatura si instaurò nel marzo 1976, contestò l’abolizione delle assemblee studentesche e fu espulsa insieme ad altri tredici studenti. Aveva completato il liceo e invano noi genitori la pregammo di trasferirsi in Italia per frequentare l’università in un Paese libero. Nel giugno 1976 fu arrestata e da allora non l’abbiamo più vista. Giorgio è morto nel 1991, senza sapere come fosse morta la nostra bambina. Io ho appreso più avanti che era stata narcotizzata, insieme ad altri infelici prigionieri, e gettata da un aereo nelle acque del Rio della Plata. Tanti innocenti vennero invece sepolti in segrete fosse comuni.
Quando il regime è crollato, nel 1982, le mamme e le nonne di Plaza de Mayo hanno iniziato a chiedere giustizia e a cercare ogni traccia possibile dei loro cari. Le ragazze incinte al momento dell’arresto hanno partorito in prigione, prima di essere eliminate barbaramente: i neonati sono stati adottati dai carcerieri stessi o dati a coppie ignare, che li credevano orfani senza radici. Ne abbiamo già identificati e ritrovati parecchi. Ogni volta è una festa. Gli antropologi forensi invece ci aiutano a dare un nome a tanti poveri resti: quando un ragazzoa viene riconosciuto c’è una commemorazione solenne, per ridare voce a quanto è stato soffocato. Le scuole ospitano mostre, espongono fotografie e permettono a chiunque ricordi le vittime di renderne pubblica la memoria. Abbiamo reso da poco onore a Lila Epelbaum, desaparecida a soli quindici anni. La madre persuase invano altri due figli a nascondersi in Uruguay. Le dittature erano unite tra loro dal Piano Condor : vennero trovati ed eliminati.
Sono doppiamente testimone e militante della memoria: per la Shoah e per i desaparecidos. Per questo vengo spesso in Italia, a parlare ovunque mi venga chiesto di fatti che non dobbiamo scordare. Per tre volte ho testimoniato anche in tribunale contro gli assassini di mia figlia. Esistono responsabilità ben precise, complicità, omertà, atrocità che devono essere chiarite e punite perché non si perpetuino. Nessuno da noi ha cercato di farsi giustizia per conto proprio: aspettiamo che si faccia luce su troppe barbarie e che questo avvenga di fronte al mondo intero.
In Argentina si sono susseguiti sei colpi di stato e diverse crisi economiche. Ora, non tutto è risolto, ma la gente ha ripreso fiducia nella politica e partecipa di nuovo alla vita pubblica. Il voto è obbligatorio dopo i diciotto anni.
Mi interesso attivamente di tutto quanto mi circonda, ma la mia missione principale consiste nel rendere testimonianza di Olocausti che spero non si ripetano mai più».

Vera Vigevani 2

 

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