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Attualità  

L’Africa delle fragili democrazie

L’Africa delle fragili democrazie

14 marzo 2015

Nel corso degli ultimi anni sono due le dinamiche che hanno contribuito a modificare in profondità il quadro politico dell’Africa a sud del Sahara. La prima ragione è quella rappresentata dalla contraddizione tra la rapida crescita economica e gli alti tassi di povertà all’interno stesso dei paesi africani.

Una contraddizione che ha generato – e che genera – tensioni e violenze e che mette a dura prova la tenuta stessa delle sempre più fragili democrazie. La seconda ragione è quella rappresentata dallo scoppio di conflitti armati le cui radici affondano in processi storici di marginalizzazione economica e sociale di regioni e gruppi spinti a percepirsi come estranei allo Stato.

E la stessa crescita delle economie africane, se da un lato mette un po’ in crisi l’immagine di un intero continente intrappolato nel sottosviluppo e nella crisi, dall’altra solleva una serie interminabile di difficoltà politiche cui i governi sono chiamati a dare risposte serie e convincenti.

Al tempo stesso, i conflitti armati portano in primo piano i rischi che gli squilibri legati ai processi di sviluppo politico ed economico pongono in un continente che è tornato ad affacciarsi alla democrazia solo due decenni fa.

Si sono anche registrati, qua e là, un rafforzamento del pluralismo politico e forse anche un controllo più forte degli eletti da parte degli elettori. Ma, purtroppo, i limiti, le contraddizioni e le degenerazioni non mancano.

E il fattore che più contribuisce a indebolire la tenuta dei processi di democratizzazione in Africa è quello rappresentato da un modello di sviluppo economico che si è rivelato incapace di fornire risposte efficaci e convincenti al problema endemico della povertà.

Gli stessi investimenti internazionali, da molti considerati come la chiave decisiva per garantire la crescita economica e produttiva, in certi casi hanno contribuito addirittura ad acuire le contraddizioni del modello di sviluppo. La mancata creazione di nuovi posti di lavoro, l’approfondirsi degli squilibri economici e sociali tra le diverse regioni all’interno di un paese, i danni ambientali e l’esproprio delle terre hanno alimentato una molteplicità di proteste a livello locale e, in numerosi paesi, un sensibile aumento dell’astensionismo elettorale.

Segno, questo, inequivocabile del crescente e massiccio distacco tra i cittadini e le stesse istituzioni. In alcuni casi, davanti alla crisi di consensi a favore del governo, quest’ultimo ha fatto ricorso alle manovre tradizionali dell’imposizione di controlli sulle attività della società civile o alla manipolazione dei processi elettorali, al fine di assicurarsi la permanenza al potere anche ricorrendo alla corruzione e al malcostume. In altri casi, purtroppo, si è ricorso direttamente ad accendere la miccia di questioni che da tempo si agitavano all’interno della nazione, spalancando le porte alla violenza.

All’interno di questa cornice si inserisce la drammatica questione della persecuzione dei cristiani. Come non ricordare le parole dell’ex capo dello stato Napolitano quando nel suo ultimo discorso agli italiani pose in termini netti e crudi la questione della «persecuzione dei cristiani.

Dal disegno di uno o più stati islamici integralisti da imporre con la forza sulle rovine dell’Iraq, della Siria, della Libia; al moltiplicarsi o acuirsi di conflitti in Africa, in Medio Oriente, nella regione che dovrebbe essere ponte tra la Russia e l’Europa. Di questo quadro allarmante – concluse Napolitano – l’Italia, gli italiani, devono mostrarsi fattore cosciente e attivo di contrasto».

Le parole di Napolitano, purtroppo, sono passate in Italia sotto un riprovevole silenzio. Figurarsi nelle regioni interessate da questi crimini. Eppure l’Europa (con tutta la comunità internazionale) non può permettere a Boko Haram di continuare la sua campagna di terrore e violenza.

I conflitti armati in Mali o in Nigeria, come le forme di autoritarismo in Zimbawe, non sono il destino inevitabile dell’Africa. Certo, rimane da affrontare, in modo persino drammatico, il nodo della democratizzazione dei singoli stati. Sciogliere tale nodo sarebbe già un primo passo in avanti.

Ma fermare la spirale di violenza e di morte nei confronti di intere etnie, o gruppi religiosi come i cristiani, è oggi la prima emergenza politica da affrontare. La “questione Africa” non può più passare sotto silenzio. A livello europeo come a livello internazionale.

Stefania Parisi

deibéré nangué (3)

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