13 Marzo 2012
La guerra made in Italy
Traffici di armi nel Mediterraneo e nell’ Africa sub-sahariana: il nostro paese tra i maggiori esportatori La grave crisi economico-finanziaria che affligge da quattro anni il pianeta sta investendo anche la produzione degli armamenti: non diminuiscono significativamente, tuttavia, le autorizzazioni all’esportazione di materiale ad uso militare prodotto nel nostro Paese – attestate infatti ad una quota di 2,9 miliardi di euro nel 2010 – verso aree geopolitiche “calde” come il Mediterraneo ed il Medio Oriente.
Da un lato l’ultimo rapporto della Presidenza del Consiglio, riferito al 2010, ci spiega come «Il minor livello di autorizzazioni rilasciate, rispetto al 2009, va attribuito, da un lato al progressivo esaurimento di alcuni programmi governativi europei di cooperazione e dall’altro ad un minor numero di commesse internazionali correlabile alla difficile congiuntura economica».
Dall’altro lato, lo stesso rapporto evidenzia come le consegne effettive di materiale bellico siano in realtà cresciute anche in un annus terribilis per l’economia europea come il 2010: 2,7 miliardi di esportazioni definitive certificate dalle dogane.
Venendo al trend industriale, evidenziato dalle operazioni di consegna effettiva, emerge ancora la centralità del Mediterraneo come area nevralgica di traffici di armi: giocano infatti un ruolo di primo piano sia l’Arabia Saudita (141 milioni, forniture di bombe, siluri, razzi ed aerombili) che la Libia che ha sfruttato al meglio le numerosi autorizzazioni rilasciate negli anni scorsi vedendosi consegnare circa 100 milioni di euro di armamenti italiani (soprattutto veicoli terrestri ed aeromobili).
Con una certa involontaria ironia, la dinamica positiva negli acquisti di armi da parte di questi Stati non occidentali è positivamente valorizzata nella Relazione governativa, che evidentemente la considera una misura utile a bilanciare la ridotta capacità di spesa militare dei paesi occidentali.
Se allarghiamo la nostra analisi all’Africa sub-sahariana, il quadrò è egualmente sconfortante: il recentissimo documento dell’autorevole SIPRI Stockolm International Peace Research Institute, dedicato ai traffici d’armi verso l’Africa sub-sahariana (dicembre 2011), colloca il nostro Paese al quarto posto (escluso il Sud Africa), dopo Cina, Ucraina e Russia, tra i fornitori di armi convenzionali maggiori ai paesi di quella regione (segnatamente Nigeria, che ha assorbito il 77% dell’export italiano, seguito da Namibia, Tanzania e Zambia) nel periodo 2006-2010.
In tutti questi casi occorre spezzare quella che Mark Hartford, in un documentatissimo dossier della MISNA (“Dall’Africa all’Africa. Le vie delle armi”, giugno 2011), ha definito la “maledizione della ricchezza”: in Sierra Leone, in Liberia, nella Repubblica democratica del Congo, in Nigeria e nella regione dei Grandi Laghi il saccheggio delle risorse naturali ed il loro contrabbando mirato al profitto delle organizzazioni criminali hanno giocato e giocano un ruolo essenziale e ben documentato nel finanziamento, e dunque nel prolungamento, dei conflitti. In questo contesto che il traffico di armi svolge una funzione assolutamente centrale.
Spetta alla Comunità internazionale intervenire affinché a livello statale vengano adottate le misure legislative e repressive idonee e applicabili concretamente allo scopo di evitare l’elusione della normativa da parte di organizzazioni e trafficanti (cosi come si è visto in molti paesi africani e del Medio Oriente). Ma per fare questo è necessario che aumenti la consapevolezza, soprattutto nelle rappresentanze politiche, della gravità del problema all’interno dei principali paesi esportatori, come il nostro.
Stefania Parisi
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