12 gennaio 2015

Una funzionaria frossaschese racconta il lavoro dell’ONU nelle zone più critiche del pianeta

Ilaria Martinatto, nata a Pinerolo e cresciuta a Frossasco, è responsabile dell’ufficio del Programma Alimentare Mondiale (PAM) delle Nazioni Unite a Quetta, capoluogo del Balochistan, in Pakistan. Trentatré anni ed un curriculum di tutto rispetto: laurea in scienze internazionali e diplomatiche, stage presso l’ambasciata italiana a Parigi, due anni in Mozambico per la ONG UNICRI con un incarico nell’ambito della giustizia minorile, un anno in Tailandia nello stesso settore, altri tre anni in Mozambico come funzionaria junior dell’ONU nell’ambito del PAM, quattro mesi in Malawi come consulente per i programmi educativi e ora l’avventura più difficile in una delle zone più critiche del pianeta.
Di cosa ti occupi precisamente a Quetta?
Coordino un ufficio di circa 30 persone che seguono i programmi contro la malnutrizione in sette distretti del Balochistan. Lavoriamo anche sulla prevenzione delle catastrofi naturali mediante la formazione nelle scuole e nelle comunità locali. Infine gestiamo il transito di aiuti alimentari che dal Pakistan arrivano a Kandahar in Afghanistan. Tutto questo in collaborazione con il governo pakistano e con le altre agenzie ONU che operano sul territorio.
Non sembrano azioni semplici, soprattutto in una zona calda come l’area tra i due stati.
Il Balochistan è la regione più tormentata del Pakistan, si vive in un clima di insicurezza generale e attentati ed attacchi sono all’ordine del giorno. Ci sono diversi gruppi terroristi (talebani pakistani, indipendentisti baloch) e scontri religiosi ed etnici (sunniti contro sciiti, pashtun contro azara, popolazione locale e rifugiati afghani). Domina ancora la logica della violenza come risoluzione delle contese. Spesso per essere considerati “uomini” occorre possedere almeno un arma da fuoco; il problema è prima di tutto nella mentalità. La situazione peggiore è quella delle donne: il 97% è analfabeta, le poche che lavorano sono spesso vittime di attacchi con l’acido, la maggior parte dipende completamente dalla volontà di padri e mariti e spesso sono spose bambine.
Descrivici la tua “giornata tipo”.
Si basa totalmente sulle norme per la sicurezza per il personale ONU. Vivo nell’unico albergo di Quetta autorizzato ad ospitare funzionali delle Nazioni Unite. Al mattino esco in un orario variabile tra le 7.30 e le 8.30, con la testa coperta dal velo e una tunica pakistana sotto la giaccavento. Salgo su un auto blindata con autista addestrato e, cambiando ogni giorno percorso, raggiungo il posto di lavoro. Tutte queste variabili servono a non dare riferimenti a potenziali aggressori. Tra le 17 e le 18 compio il percorso inverso. Una volta in hotel non posso uscire fino al mattino successivo.
Ci sono stati attacchi contro il personale ONU che giustificano questa prudenza?
Cinque anni fa è stato rapito, e poi fortunatamente rilasciato, il responsabile di un ufficio ONU. I colleghi più a rischio sono i pakistani, perché oltre ad essere dipendenti delle Nazioni Unite rimangono comunque membri del loro gruppo etnico e religioso e per questo vivono lo stesso pericolo dei loro compaesani
Come reagisce il governo pakistano a questa generale insicurezza?
Il governo attuale, il primo eletto democraticamente, è anche il primo a rispondere al terrorismo con il pugno di ferro, senza distinguere tra terroristi “buoni” (ad esempio che agiscono in India e non in Pakistan), che possono dare appoggio politico, e terroristi “cattivi” come si è fatto in passato. Il sistema di controlli è spietato, i droni attaccano in continuazione le postazioni terroristiche o presunte tali. I problemi rimangono due: i terroristi rispondono colpo su colpo e possono contare su molti infiltrati; basta pensare all’attentato alla scuola di Peshawar, dove gli attentatori avevano ottenuto divise dell’esercito e hanno agito dicendo “Adesso anche voi piangerete i vostri figli”.
Come riesci a gestire lo stress psicologico di vivere in una città così pericolosa?
Arrivati in Pakistan si segue obbligatoriamente un corso di addestramento tutt’altro che semplice: si simulano attacchi armati, rapimenti, sparatorie. Nel primo periodo di residenza ogni funzionario viene seguito obbligatoriamente da uno psicologo. Ogni due fine settimana mi devo spostare a Islamabad, dove la situazione è più tranquilla. Ogni sei settimane devo uscire dal Pakistan per una settimana per “staccare”. I colleghi che lavorano in Siria, Iraq e Afghanistan escono dal paese ogni quattro settimane. Per la routine… ci si fa l’abitudine!
Cosa ti piace del tuo lavoro?
Il contatto con culture diverse, i viaggi, la sfida dell’adattamento, il lavoro sul campo e la possibilità di portare sviluppo concreto nelle zone più povere del mondo.
Gli aspetti negativi?
Spesso c’è troppa burocrazia e, ovviamente, bisogna sacrificare la vita privata in funzione del lavoro.
Cosa diresti ad un ragazzo che volesse intraprendere la tua carriera?
Servono fortuna e soprattutto tanta gavetta. Non bisogna risparmiarsi e fare più esperienze possibili all’estero, anche se non retribuite. È un lavoro che si impara sul campo grazie all’esperienza di colleghi e superiori. Occorre essere flessibili, conoscere le lingue straniere e non soffrire troppo della nostalgia di casa e degli amici che si incontrano in tutto il mondo.

10857817_10204548945737139_60384660876882705_nMiriam Paschetta