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Attualità  

Fiat. Il rilancio è possibile, se «giocano» tutti

Fiat. Il rilancio è possibile, se «giocano» tutti

Editoriale di Marco Bonatti Chi ricorda lo «stile Fiat» di stagioni passate è oggi ancor più sconcertato nel constatare che il gruppo guidato da Sergio Marchionne non ha alcuna esitazione a mostrare i muscoli e a tenere alto il livello dello scontro (soprattutto sul piano mediatico). Le sentenze su Pomigliano (accordi per il progetto Fabbrica Italia) e su Melfi (reintegro dei tre sindacalisti licenziati) hanno riaperto confronti e polemiche. La Fiom minaccia i procedimenti legali, Marchionne di sospendere o cancellare il progetto «Fabbrica Italia». Questo clima prolungato di conflitto sembra far dimenticare l’oggetto vero della questione. Prima di tutto, il fatto che i cambiamenti introdotti dalla globalizzazione obbligano tutti a rivedere non solo le posizioni ma – sempre più sovente – addirittura la propria stessa identità. La globalizzazione comporta sia l’allargamento alla scala planetaria del mercato sia il confronto permanente e su tutti i piani dei metodi di produzione, relazioni sindacali, programmazione…
Un cambiamento di tal genere, ormai realizzatosi da tempo, rende ancor più importante e significativo il «sistema di regole» con cui ogni Paese affronta la globalizzazione. È qui che, ci pare, cominciano i problemi italiani: assenza di una politica industriale nazionale, crisi identitaria del sindacato, poteri locali volenterosi ma deboli, aziende ricche di promesse che continuano a non realizzarsi.
Bisogna provare ad uscire da questo stallo. Il sindacato dovrà dimostrare (a se stesso, prima di tutto) non solo di aver compreso le nuove condizioni del confronto, ma anche quali sono i necessari spazi di autonomia dal «pensiero della fabbrica». Passi importanti in questa direzione sono stati compiuti col recente accordo interconfederale sulla rappresentanza sindacale. Il sindacato italiano ha una storia ben diversa da quello americano o, ancor più, da quello tedesco, con le sue esperienze di «cogestione». E l’Italia di oggi non ha certo un governo come quello francese, tradizionalmente deciso a intervenire in nome dell’interesse nazionale anche oltre le «leggi di mercato».
Oggi però non è più tempo né di sindacalismo giallo né di marcia dei 40 mila (ché non ci sono più, 40 mila dipendenti Fiat nelle fabbriche torinesi…). Così come gli «aiuti di Stato» non possono limitarsi a qualche mancia sulla rottamazione. Anche i diritti dei lavoratori si tutelano con altri strumenti, e con logiche diverse da quelle del passato (come ha capito la Cgil, e non ancora la Fiom).
E però, se è vero che «Fabbrica Italia» rimane l’unico progetto concreto di rilancio, è assolutamente necessario che anche Fiat, e non solo il sindacato, faccia la sua parte. Da anni si sente parlare di nuovi modelli, sviluppo delle ricerche, importante impegno finanziario e industriale per rilanciare la presenza del gruppo in questo Paese. Quando arriva il tempo delle realizzazioni? Dove sono, o come si pensa di trovare, i soldi per finanziare questi progetti? E in un’impresa di così ampio respiro ciascuno deve fare la sua parte, compresa la famiglia Agnelli, storica depositaria del rapporto con il territorio torinese; e anche la classe dirigente delle istituzioni – a tutti i livelli, non solo quello locale. Senza una politica economica nazionale ogni progetto risulterebbe comunque troppo fragile. Non bastano, infatti, le buone relazioni o i legami di interesse con i grandi investitori internazionali, se ad essi non si fanno corrispondere, sul territorio, condizioni condivise di organizzazione del lavoro. Come dimostrano le acquisizioni francesi in Italia, o il caso delle banche greche i soldi, i profitti immediati e brillanti, non sempre garantiscono la «felicità».
Non si tratta, dunque, di ignorare le contrapposizioni o di «cancellare» questo o quel protagonista della scena industriale italiana, quanto di riconoscere che oggi serve uno sforzo straordinario di tutti per scommettere sul rilancio. Giorni fa persino il «Corriere della sera» aveva denunciato che la ragione principale del declino italiano consiste nell’aver dimenticato la nozione di «bene comune» (E. Galli della Loggia, «Interesse generale, una virtù perduta», 17 luglio). Giusto quel «bene comune» che non si misura soltanto coi soldi e le quote azionarie, né con le manifestazioni o l’assedio ai cantieri, ma che si trova lavorando insieme alla costruzione di una prospettiva condivisa, in politica come nell’industria.
Torino, «città laboratorio», è nelle condizioni per sperimentare questo nuovo tratto di cammino. Se non si riesce, bisognerà rassegnarsi al declino, non solo industriale, di questo Paese.

Marco Bonatti (AGD) L'ingresso dello stabilimento di Mirafiori (Torino)

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