6 Ottobre 2014
Che ne sarà dell’Articolo18?
6 ottobre 2014
Lo statuto dei lavoratori è al centro dell’attuale dibattito politico
Tra Donat-Cattin e i nuovi precari
Attorno all’art.18 si gioca una partita politica di grande importanza. In ballo non c’è soltanto il merito di uno storico articolo dello Statuto dei Lavoratori varato nel lontano 1970 dall’allora Ministro Carlo Donat-Cattin. Ma c’è una partita politica molto più complessiva e generale. Siamo di fronte ad un articolo – l’art.18 appunto – che, nel corso di questi decenni, ha diviso le varie forze politiche, alimentato scontri di piazza e sindacali e, soprattutto, ha aperto un grande dibattito nel paese attorno al capitolo delle garanzie e della difesa dei diritti dei lavoratori. Un confronto che conserva una straordinaria attualità ancora oggi perché, come disse in quell’anno proprio Donat-Cattin, «portare la Costituzione in fabbrica non cesserà mai d’essere d’attualità».
Ora, è altrettanto noto a tutti che i tempi sono profondamente cambiati da quando fu varata la legge 300 e decollò il famoso art.18. Il mercato del lavoro è stato sostanzialmente rivoluzionato. La precarizzazione nei rapporti di lavoro è diventato un fatto strutturale a monte di una disoccupazione sempre più micidiale e non soltanto giovanile. Le aziende al di sotto dei 15 dipendenti – numero fatidico introdotto dallo Statuto dei lavoratori al fine di garantire il “reintegro” del lavoratore stesso di fronte ad un licenziamento ingiustificato e discriminatorio – rappresentano ormai oltre l’80 per cento del tessuto economico e produttivo del nostro paese e le giovani generazioni sono radicalmente estranee a tutto ciò che parla di stabilità del posto di lavoro, contratti a tempo indeterminato e relativi contributi previdenziali.
Eppure il capitolo delle “garanzie” e delle “tutele” dei lavoratori, di qualsiasi lavoratore e con qualsiasi contratto, non tramonta e non è destinato a diventare un tema di serie B. Semmai, la vera sfida del Governo e di questo Parlamento, è quello di saper coniugare e allargare la garanzia della tutela e dei diritti dei lavoratori con l’introduzione di quella flessibilità che possa permettere di incrementare l’occupazione, favorire la competitività e ridare al sistema paese una chance per poter ripartire. E questo senza preclusioni ideologiche, difesa di vecchi tabù e voglia di rivalsa politica o sindacale.
Dico questo perché, per riprendere il tema accennato all’inizio, dietro alla disputa – anche violenta – attorno all’abolizione dell’art.18 si gioca, forse, la vera partita politica di questa legislatura. Molti commentatori l’hanno evidenziato in questi giorni con dovizia di cura. È una partita che si gioca tutta all’interno del centro sinistra e, in particolare, nel campo del Pd.
Per intenderci, ciò che è entrato in discussione con l’abolizione dell’art.18 non è lontanamente paragonabile alla discussione, ad esempio, sulle tecnicalità della legge elettorale dove, come è noto, la stessa pubblica opinione è del tutto indifferente alle varie modalità che possono essere individuate di volta in volta dal legislatore. Lo scontro in atto, invece, tra la tradizionale sinistra politica e sociale del nostro paese – al di là dei consensi che può avere o meno nella società italiana – e il progetto di modernizzazione e di innovazione del mercato del lavoro proposto dal Premier Renzi, su cui converge buona parte della destra italiana, può provocare una esplosione dei tradizionali contenitori politici e dar vita, al contempo, ad una pesante ristrutturazione dello stesso sistema politico italiano. Con pesanti ricadute sull’attuale quadro politico e sulla stessa maggioranza di governo.
Ma il merito principale di Renzi, e questo va riconosciuto al di là delle legittime opinioni di ciascuno, è quello di aver innescato con forza e determinazione questo dibattito. Arrivando anche, sempre che i fatti questa volta seguano agli annunci, ad una sorta di “redde rationem” definitivo sotto il profilo politico e parlamentare. Cioè mettendo in discussione equilibri politici che forse sino ad oggi sono stati ingessati o per convenienza o per mancanza di coraggio da parte dei vari interlocutori politici.
L’unica cosa che non può e che non deve capitare, adesso, è una sorta di “mediazione al ribasso”. Cioè, una sorta di accordo minimale che accontenta tutti a metà, e non soddisfa nessuno, e che rimanda il problema all’infinito. Ma siamo certi che con Renzi, almeno su questo versante, questa soluzione è da scartare.
Anche se, ad oltre 40 anni di distanza, la “lezione” politica e culturale di u
omini come Carlo Donat-Cattin e molti altri continua ad essere di una bruciante attualità. Almeno sotto il profilo della cultura della difesa dei diritti dei lavoratori. Che, come molti auspicano, vanno semmai estesi a tutti e non conservati per pochi. E accanto, comunque, ad una, questa sì, indispensabile e non più prorogabile riforma complessiva del mercato del lavoro.
Giorgio Merlo
Senza giusta causa
L’articolo 18 impedisce il licenziamento “senza giusta causa”. Abolirlo permette il licenziamento “senza giusta causa”. Le controversie concluse con la riassunzione sono “poche migliaia” (dice il governo). Ma molti di più sono i licenziati che hanno rinunciato a fare causa (dicono i critici). Io dico che, anche se fosse uno solo il lavoratore “licenziato senza giusta causa”, la legge dovrebbe proteggerlo e reintegrarlo.
Togliere questa tutela non favorisce le assunzioni, se non quelle fatte con licenza di licenziamento senza giusta causa, cioè licenza di ingiustizia su un punto essenziale di civiltà costituzionale: il rispetto del lavoro umano. È tabù? È ideologia?
Enrico Peyretti
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